È questione di architetti!
Frammento #5
In quello che si legge e si sente in questi giorni si oscilla, da un lato, tra l’idea di una ripresa/ripartenza in grado di ripristinare le condizioni pre-esistenti, al più con qualche cambiamento gattopardesco che, di fatto, lascia tutto com’è; dall’altro, tra profezie millenaristiche rivoluzionarie, come se stessero per avvenire cambiamenti radicali che investono tutti gli aspetti del vivere associato. Non si leggono facilmente prese di posizione per il cambiamento degli assetti economici vigenti (in grado di andare oltre le correnti critiche al liberal-capitalismo globalizzato) mentre sembra decisamente più facile esercitarsi nelle previsioni sociologiche (come cambieranno i modi di riorganizzare i rapporti sociali anche “in distanza”) e soprattutto in quelle urbanistico-architettoniche (come cambieranno le città, le case, gli ospedali, le spiagge, i territori) con un naturale protagonismo degli architetti/progettisti, che, nel proprio intimo o nel proprio DNA, considerano di avere un ruolo importante nel guidare le rivoluzioni.
Entrambe le posizioni hanno le loro giustificazioni; le città hanno attraversato, quasi con una semplice scrollatina di spalle, catastrofi di ogni tipo (guerre, distruzioni, rivoluzioni, epidemie, carestie, spopolamenti) con varie tappe che segnano la loro lunga durata. È stata utilizzata una bella immagine; quella della “danza”, i cambiamenti della città fisica come passi di danza che solo la memoria e la storia (il racconto di una vita) riescono a farci immaginare oltre la statica fissità dell’attimo presente. Anche Cagliari, nei suoi millenni di vita, ha danzato, così come con ritmi geologici ha danzato la sua geografia.
Allora, la domanda: cambia tutto o non cambia niente, almeno per la città, sembra legittimare entrambe le risposte; nessun evento sembra cambiare la città, nessun fatto irrilevante sembra lasciarla tale e quale.
E allora la domanda non è questa e non riguarda la città ma i cittadini, se pensano al futuro affidandosi al destino o al progetto, se sanno immaginare alternative e combattere per realizzarle, in definitiva, se, e in quale grado, sanno essere rivoluzionari. E naturalmente queste domande riguardano in modo ancor più diretto gli architetti/progettisti: si è fatta una distinzione tra gli architetti che vivono in tempi di rivoluzioni e architetti rivoluzionari, che promuovono rivoluzioni; non è la stessa cosa, e qui l’esempio è classico.
Architetti ai tempi della rivoluzione e architetti rivoluzionari
L’immagine che su Casabella 520-521 (1986) chiude l’articolo di Bernardo Secchi (Progetto di suolo) ha una data (1793) e un riferimento (“concorso di Carta e Paesaggio) che introducono a qualcosa di più di una semplice divagazione. Il 17931 è ricordato nelle storie dell’architettura come l’anno dei concorsi nel periodo rivoluzionario, concorsi banditi appunto nel secondo anno del Direttorio2. In quell’anno, ricordato tra i più tragici della storia (di Francia ma non solo), nel mentre anche la guerra prepara le sue distruzioni, il Direttorio impegna tutti gli artisti (sono più di 25 i settori individuati) per dar forma alla Repubblica: un concorso “nazionale”, libero (le accademie sono state soppresse), rigorosamente anonimo, democratico (la giuria di quaranta componenti è eletta dagli artisti partecipanti) da svolgersi in tempi brevi (primavera del ’94). Nel settore dell’architettura sono presentate più di 200 proposte, che, nel loro insieme, almeno per la parte che è stato possibile esaminare3, confermano quanto sia difficile essere rivoluzionari e che non basta vivere in periodi di forte instabilità per saperlo essere. L’autorappresentazione che la giovane Repubblica ha cercato di darsi con l’aiuto degli artisti si è esaurita nella rielaborazione di simboli e, nel complesso, quel grande impegno viene rapidamente dimenticato4. La città (Parigi) si rivoluzionerà più di cinquant’anni dopo con altri protagonisti e un’altra autorappresentazione.
Rimane significativo che venne inventata in quegli anni terribili una nuova forma di coinvolgimento creativo di cui forse anche oggi potremmo avere bisogno. Ci sarà, oggi come allora, una libera, universale, democratica chiamata alle arti?
Quelli che invece ricordiamo come “architetti rivoluzionari”5 hanno sviluppato le loro ricerche e i loro progetti con una ossessione che li ha accompagnati per tutta la vita e la loro influenza si è sviluppata, contro le loro volontà e aspettative, oltre i limiti della loro esistenza. Aldo Rossi, traducendo nel 1967 il saggio di Étienne-Louis Boullée6, ce lo ha reso contemporaneo e presente anche nei nostri modesti archivi. C’è nell’architettura una componente tecnica e scientifica ed è quella trasmessa, fin dai tempi di Vitruvio, in tutti i trattati di architettura; e c’è una componente artistica che proviene invece da un nucleo emozionale personale che suggerisce all’architetto il “carattere” dell’opera. Questa scelta progettuale, al pari di quelle tecniche, può essere logicamente spiegata (è per questo che si può insegnare l’architettura) anche se le sue ragioni si annidano nelle profondità delle esperienze di vita e il racconto che la spiega è solo autobiografico. Un razionalismo esaltato, lo definisce Aldo Rossi, che ne ha fatto certamente un cardine della sua esperienza progettuale.
Enrico A. Corti
Ingegnere – già docente di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà Ingegneria e Architettura – Università di Cagliari
1. La Repubblica è stata proclamata il 21 settembre 1792, data di origine del nuovo calendario. L'an II – l'anno II del calendario rivoluzionario francese – comincia il 22 settembre 1793. Il 23 gennaio è giustiziato il Re.
2. I mesi di svolgimento del concorso (primavera del ’94) sono segnati dal “Terrore” (fino alla morte di Robespierre – luglio 1794). Cfr. W. Szambien, Les projets de l'an II, concours d'architecture de la période révolutionnaire, École nationale supérieure des beaux-arts, Paris 1986.
3. Il materiale rinvenuto nei depositi della École des Beaux-Arts (52 progetti) riguarda circa un quarto di quelli presentati.
4. Il concorso non andò bene neanche per i partecipanti; i continui arresti di componenti delle giuria ritardarono la valutazione delle proposte fino al ’95. I cospicui premi previsti furono poi pagati in moneta di carta (assignat) che non ebbe alcun valore. Il rapido cambio di orientamento (Napoleone è alle porte) fece sì che il passato rivoluzionario non venne rivendicato, i progettisti preferirono confluire nelle speranze dell’Impero.
5. E. Kaufmann, Tre architetti rivoluzionari, Boullée Ledoux Lequeu, FrancoAngeli, Milano 1993.
6. E.-L. Boullée, Architettura saggio sull’arte, tr. it. di A. Rossi, Marsilio, Venezia 1966.