Frammento #4
E dunque, queste fotografie di città deserte, frammenti della “Città ideale”, se, per un verso, con l’assenza di ogni presenza umana, ci sembrano perfette per cogliere la struttura fisica, il sistema di coordinate e i caratteri formali, dall’altro sembrano perfette anche per riproporre la fondamentale questione del rapporto “spazio-società”. Anche Leon Battista Alberti e i teorici della città ideale interpretano la forma della città come scena del dramma: una scena nella quale lo spazio è ordinato dalle regole della geometria (prospettiva) e il tempo è ordinato dalla storia inglobata nella “architettura” (i personaggi del dramma), con la sua durata, con i suoi riferimenti, le sue narrazioni, e con la sua mutabilità.
Forse, queste immagini, ci fanno sentire impreparati a comprendere quale rapporto spazio-società sottendono. Ci interrogano sul fatto che, dal momento in cui è cessata la grande crescita urbana, questo rapporto è stato progressivamente affidato ad altri ed è scivolato sempre più in una sfera sovrastrutturale...1
Premessa metafisica – Dal profondo... all'apparenza2
Nel sesto capitolo di Tristi Tropici Claude Lévy-Strauss ricorda i momenti della sua formazione giovanile e ne richiama i fondamenti: l'interesse per la geologia, per la psicanalisi e l’adesione al marxismo. Queste discipline hanno una ispirazione scientifica comune: la conoscenza dei fenomeni deriva dall'esplorazione del profondo, di ciò che sta oltre l'immediato, oltre il caos della superficie. La cultura moderna ha un forte impianto “strutturalista”: sono i meccanismi di base che determinano la realtà; i loro effetti traspaiono in superficie come segni che devono essere interpretati.
Anche la pianificazione ha seguito, per i primi tre quarti del secolo scorso, questi principi: il governo dello spazio è prioritariamente il governo dei conflitti economici e sociali: i fabbisogni delle masse, la dotazione di servizi, la città pubblica, la lotta alla speculazione edilizia diventano i contenuti del piano perché «lo spazio è politico» (Henry Lefebvre). Su questa base politico- sociale l’architettura elabora le sue forme.
Nell’ultimo quarto del secolo, a seguito dell’unificazione dei mercati nazionali e regionali e dello sviluppo delle tecnologie digitali e informatiche, si è fatto ricorso fiduciariamente ad una scienza economica e ad una pratica organiche al capitalismo, senza adeguate attenzioni e correttivi alle conseguenze e ai disequilibri planetari.
Anche la pianificazione cambia le sue strategie (si pratica il marketing territoriale) e l’architettura diventa “iconica”, annulla i principi di orientamento spaziotemporale (si pratica il morfing) e scioglie i suoi rapporti sociali: la forma visibile, un tempo luogo della percezione critica, della formulazione del progetto alternativo, si esalta nel regno dell’immaginario e dell’apparenza.
Tra il profondo e la forma visibile sta la superficie: su di essa viene scritto il piano che, in questo senso, tra visibile e invisibile è una scrittura metafisica, una scrittura che dice e non dice perché va interpretata. Per questo un nostro (e vostro) grande urbanista che abbiamo amato e ammirato, Bernardo Secchi, concretizza il piano come «progetto di suolo».
Una riflessione complessa, ancora legata agli assiomi della modernità, è esposta nel saggio di Gregotti (La forma del territorio3), sul lavoro degli architetti a tutte le scale dimensionali: una tecnologia formale del territorio che Gregotti ritiene necessario definire, per interpretare la «figura della città come caso particolare della figura del territorio». Il vero problema teorico non è determinato dal cambiamento di scala quanto dal problema della «forma» sia con riferimento alla città che al «paesaggio antropo-geografico» tenendo saldi i paradigmi del progetto moderno: ogni atto dell’agire umano consapevole, ogni modificazione del mondo attraverso il progetto, è un atto che dà forma elaborando strutture latenti che possono essere indagate e rivelate come “principi insediativi”. Per questo, quando Gregotti si interroga sui cambiamenti di scala del progetto, non muta paradigma, non introduce la nozione di “paesaggio”, bensì quella di forma del territorio, alla quale pensa di dover attribuire uno statuto ancora più generale, dal quale far derivare – come casi particolari – la forma della architettura/città. Non abbiamo un termine per definire la “forma della città”: la città è la sua forma, come il territorio è la sua forma. Questo, almeno, fin quando vige lo statuto della modernità, fin quando la forma è trascrizione di profondità.
Quando il modello di rappresentazione del profondo perde stabilità e diventa fluttuante, quando le condizioni sono cambiate ed è necessaria una nuova visione e una nuova esperienza, allora l’artista porta tutto in superficie. Mi piace rileggere in questa chiave Progetto di suolo4 di Bernardo Secchi. Il punto di partenza di questo densissimo scritto è la constatazione di come stanno cambiando i modi di rappresentare – cartograficamente – il progetto urbanistico, la cui rappresentazione va assumendo un carattere “iconico-metaforico”: il segno cerca di intrattenere con l’oggetto un rapporto di somiglianza, allusivo all’immaginazione della città e del territorio possibile. A fronte di questa visibilità resta però il fatto che il campo di riflessione dell’urbanistica è il “progetto sociale” – invisibile – forma canonica delle pratiche urbanistiche. Tra la profondità invisibile e la forma della visibilità sta l’essenza del progetto urbanistico che si estrinseca come “progetto di suolo”: il progetto urbanistico è, in gran parte, progetto di suolo, sia quando è atto di costruzione (centuriazione) sia quando è atto fondativo della città: acquisisce senso entro un più generale progetto sociale, acquista valore attraverso il progetto di architettura. Categorie concettuali che aprono la strada a ragionamenti complessi sulla città e sul territorio e ne consentono le articolazioni per parti: «Il nostro sguardo comincia a essere attivo... dovrò distinguere e nominare in base ai caratteri visibili...».
Enrico A. Corti
Ingegnere – già docente di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà Ingegneria e Architettura – Università di Cagliari
1. Non era sempre stato così: negli anni che aprivano la seconda metà del secolo scorso, dopo la grande catastrofe della seconda guerra mondiale, quando le ragioni del cambiamento erano totali e assolute perché nulla poteva essere come prima (perché molto del prima, fisico, culturale, politico era – o sembrava – distrutto) un concetto sembrò poter sostenere e rinnovare il progetto urbano: “Lo spazio è politico”, è il luogo dei conflitti e dell’esercizio dei diritti, in primis, del diritto alla città. La narrazione delle vicende urbanistiche dei Paesi impegnati nella ricostruzione esplicita quanto di vero vi fosse in quegli enunciati e quanto gli strumenti messi in campo – almeno in Italia – fossero del tutto inadeguati (o volutamente inadeguati) a raggiungere lo scopo. Rimando ancora al 3° Quaderno del Laboratorio del IV anno, CUEC, Cagliari 2003.
2. Il testo che segue è tratto dal mio intervento del 20 settembre 2017, in occasione del Laboratorio di Diploma dell'École Spéciale d’Architecture di Parigi (ESA), tenutosi a Cagliari nell'autunno 2017 in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura (DICAAR) dell’Università di Cagliari.
3. V. Gregotti, Il territorio dell'architettura, Feltrinelli, Milano 1966.
4. B. Secchi, Progetto di suolo, in «Casabella», n. 520-521, gennaio-febbraio 1986, pp. 19-23.