Alfonso Ricci-Notero, in visita a Cagliari per il Festival dell’architettura - FAC2020, incontra e intervista Enrico Corti sulla intensa esperienza che venticinque anni fa lo vide protagonista della stesura del piano urbanistico per la città.
Alfonso Ricci-Notero: Il tema generale di questa intervista riguarda visioni e prospettive su Cagliari e la sua Area, visioni e prospettive che saranno articolate successivamente in argomenti più dettagliati. Per iniziare, in termini generalissimi, mi riferisco all’idea di città. E così, inizierei domandandole: 25 anni fa, alle prese con la redazione del PUC, si ragionò su una idea di città? Quali “metafore”, quali parole o immagini cercarono di rappresentarla? Con quale esito?
Enrico Corti: Posso raccontare alcune cose: per le note vicende [1] ci fu quasi un anno di riflessione esclusivamente “personale” – potrei identificarlo come il mio primo sguardo intenzionale, finalizzato a raccontare la città. Mi sembrava di poter/dover fare come lo scultore cinese che passa anni a guardare che cosa c’è dentro il blocco di giada che deve scolpire [2]. Nei confronti della città erano in uso, ormai da decenni, metodi sempre più raffinati ed efficaci per “rappresentare la città”, metodi di analisi urbana, sperimentati anche nella scuola. Tuttavia non mi sembrava che questo potesse essere lo sguardo dello scultore cinese (o per lo meno, solo questo) e così, come riferimento introduttivo alla relazione preliminare misi la prima frase della Dissertazione del 1770 di Kant [3] (che proprio allora un caro studente, Antonio Sannio, mi aveva regalato): “l’analisi non si ferma se non al semplice… la sintesi non si ferma se non al tutto.”
Così cercai di interpretare come poteva essere perseguita una sintesi che non si ferma se non al tutto. Insomma quel semplice apologo cinese mi convinse che un conto è cercare e un conto è trovare (io non cerco, trovo… lo aveva già ribadito Picasso).
ARN: È così che si cerca un’idea di città? Ma la città non è un blocco di giada da scolpire, e un’idea, per essere un’idea di città, deve essere condivisa…
EC: No, certamente non è così ma, ripeto le circostanze furono anomale; nessun dibattito da parte delle forze politiche aveva preceduto l’incarico per un Piano che, tutto sommato non si voleva fare. Anzi, aveva forse una ragione molto parziale ma condivisa: rendere riutilizzabili quei circa 400 ettari che risultavano vincolati per standard dal Piano dei Servizi ma non avevano nessuna possibilità di essere espropriati e di rendere la Piana di San Lorenzo disponibile all’espansione della città. Alla fine, dopo le elezioni, fu la determinazione del sindaco Delogu e dell’assessore Abis che ebbe il coraggio di rischiare e diede il via all’operazione di un Piano urbanistico comunale. È in quell’anno di pausa intercorso per il rinnovo del Consiglio che, metaforicamente, pensai allo scultore cinese e certamente sto perdendo tempo a parlarne adesso, ma qualche altra cosa vorrei continuare a dirla.
Come ho detto cercavo di capire come potesse essere lo sguardo dello scultore, che cosa osservava o come osservava e perché ci voleva così tanto tempo e mi son fatto l’idea che, dopo aver visto bene come era fatto il blocco non ha potuto far altro che immaginare configurazioni diverse, fare congetture e aver visioni diverse, sempre cercando quella che facesse meno scarto; fino a trovare il drago naturalmente e… a perderci la testa…
In questo apologo una questione mi sembrava importante: perché si deve sempre ragionare sul “tutto”, tralasciare meno cose possibili e cercare comunque di produrre meno scarti (anche a rischio di contraddire l’Imperatore)? Naturalmente c’è una risposta pratica-economica (la giada è un materiale prezioso meno se ne spreca e meglio è); c’è anche una risposta, come dire, etica (non trascurare niente, non lasciare indietro nessuno), e c’è anche una risposta metodologica perché non si può sapere qual è l’importanza di quella pur piccola parte che si trascura. In ogni caso questioni piuttosto complicate.
Insomma, per farsi un’idea di una realtà, non basta fare e farsi domande ma occorre provocare risposte e quindi bisogna “esplorare” ma anche intravedere o addirittura profetizzare… Da un lato spezzettare, rovistare, guardare sempre più nei frammenti; dall’altro invenire, trovare, inventare configurazioni che mettono insieme le parti, prima come relazioni puramente formali, poi cercandone un significato strutturale rapportate all’intera città.
Così avevamo impostato con Salvatore Peluso la parte più specificamente riferibile al progetto urbano, e così prende forma il “Piano per progetti”, sul quale magari dirò qualcosa anche dopo.
ARN: È la funzione esplorativa del progetto. Come si è concretizzata, con quali risultati si è conclusa?
EC: Trattandosi di relazioni spaziali la ricerca si sviluppa, almeno in fase iniziale, per via prevalentemente grafica e non ha, per così dire, un senso compiuto; grafi fatti appoggiandosi ai segni dell’esistente di cui non si capisce il senso, perché il senso salta fuori solo quando questi segni suggeriscono e acquistano un nome, un’idea che li identifica e li rapporta all’intera città [4]. Alcuni nomi erano già nella tradizione: città nuova di pianura, ad esempio, fu usata negli anni ’30 del secolo scorso, per identificare la prima espansione di San Benedetto, in contrapposizione alla “città vecchia di collina” che identificava Castello. Città novissima deriva , invece, dal fatto che non esisteva un “nome di insieme” per i quartieri che erano sorti nella periferia occidentale, dove le diverse parti continuavano a identificarsi con i nomi della loro derivazione agricola. Non c’era – e non c’è – un’idea di insieme per tutto quello che si è generato per frammenti a partire dal secondo dopoguerra. Per altro, con una singolarità: al centro c’è il Cimitero di San Michele. Mi sembrò, e mi sembra ancora, che quella situazione rappresentasse una grande sfida per immaginare una parte di città che, al Centro, ha un cimitero, che, per altro, proprio allora si stava ingrandendo (cosa che mi parve sbagliata perché si perdeva anche la coerenza formale dell’impianto originario…). Per interpretare quel tema mi sembrò che ci sarebbe voluta una “rivelazione”, termine apocalittico appunto, e per queste ragioni usai la parola “novissima” come sfida concettuale (per i progettisti di allora e di oggi). Altri nomi sono più influenzati da suggestione e anticipazione di progetto: l’evocazione delle Ramblas per immaginare la via Dante pedonalizzata e rinnovata è rimasta nella penna, nonostante il rimando ad antichi letti sabbiosi di acque sotterranee; mentre Salvatore Peluso, di rientro da Berlino, evocò con un nome “kultur-forum” il destino di un’area. Alla macroscala dell’insediamento il punto di partenza fu semplicemente relazionale, quasi geografico; la distinzione tra “pars oriens” e “pars occidens” evidenziava l’asse baricentrico della conurbazione cagliaritana, imperniato sui centri di Monserrato e Pirri; una centralità ignorata e contraddetta dalla visione frammentata che si aveva (e si continua ad avere) dell’area.
Insomma, in tutta quella fase di approccio alla città, ero abbastanza convinto che bisognasse seguire Cerdà: la scienza dell’urbanizzazione è complicata, bisogna usare tutti i codici comunicativi disponibili per parlarne: il discorso verbale che è il più generale per veicolare le idee; il disegno che è solo quello idoneo a evidenziare relazioni, compresenze e assenze nello spazio; infine il numero (che attiene la verità). Il piano è costruito così: un discorso che tenta di raccontare la città mettendola in sequenza per temi e interdipendenze; diversi grafici che cercano di leggere formazioni presenti o latenti e iniziano a definire le possibili regole di organizzazione spaziale (il Piano per progetti) e infine i numeri della conoscenza socioeconomica della città. E qui non posso dimenticare il grande contributo di Giuseppe Fara che ha guidato l’operazione fondamentale di “spazializzare l’informazione” e di dare senso allo slogan che abbiamo usato del Piano come “progetto di conoscenza”. Partendo dal “semplice”, dalla unità minima di informazione rappresentata dalla zona censuaria, i dati vengono aggregati e spazializzati, ricomposti seguendo le logiche dell’organizzazione urbana e istituzionale, quasi a sposarne la “fisicità”. E poi a leggerne le dinamiche e le modificazioni che interverranno nell’orizzonte temporale del Piano. I piani possono sbagliare molte cose, ma non certo le previsioni demografiche, che, per quello che ho potuto constatare, quando sono condotte con la giusta esperienza, sono assolutamente certe...
Formalmente la fase si chiude con il passaggio in Consiglio Comunale per deliberare gli Indirizzi del Piano. È il primo momento in cui gli organismi politici della città possono prendere posizione e orientare le scelte. (Ricordo che durante il dibattito, un consigliere comunale, amichevolmente ironizzando sulla continua articolazioni per parti della città, parlò di un piano carillon; la definizione non mi dispiacque: che ogni parte della città potesse suonare un suo motivo o motivetto non era poi così lontano dalle intenzioni).
ARN: Vuole richiamare quali sono stati gli aspetti salienti, i punti critici ma anche qualche riferimento teorico. Quali scenari di fondo sono stati elaborati (o per lo meno assunti) come riferimento?
EC: Il Piano non elabora scenari ma si colloca all’interno di scenari dai quali gli analisti fanno derivare le linee dell’economia mondiale; e giù giù, fino alla programmazione economica e sociale locale. In definitiva, sono i quadri all’interno dei quali si generano le politiche comunitarie, nazionali e regionali di riferimento per la programmazione economica e sociale che dovrebbe specializzarsi con la pianificazione territoriale. Tutto molto astratto e, di fatto, irrealizzato e comunque il salto tra questo livello e la scala del piano urbanistico è troppo grande e non si è riusciti a colmarlo con strumenti adeguati. Il pianificatore urbanistico è così costretto a semplificare e a vedere quali sono le implicazioni locali delle grandi questioni. Più spesso ci si deve appoggiare a letture morfologiche del contesto (che allora si chiamava “area vasta”), mettendo assieme geografia, storia, organizzazione infrastrutturale e insediativa e questo è lo scenario che si assume, più che altro come ipotesi di un piano strutturale che solitamente manca; successivamente sono necessarie competenze specifiche per il settore economico e produttivo, per riferirsi alle risorse, alle potenzialità, alle criticità. Anche per questo non direi che il Piano si genera da uno scenario o intrattiene rapporti ben strutturati con le dimensioni sovraordinate [5]. È certamente il punto più critico del processo progettuale. Tuttavia non vorrei eludere una questione che in questi ultimi tempi è stata molto dibattuta e cioè il fatto che le previsioni che fanno i piani sono sempre azzardate perché l’evoluzione di sistemi complessi, soprattutto quelli che vogliono garantire libere scelte, non è riconducibile a qualsiasi ipotesi di modello e resta di fatto imprevedibile. Tuttavia possiamo anche considerare le scelte compiute con un piano urbanistico anche da un altro punto di vista, vale a dire continuare a leggere il piano come un patto sociale: ipotesi astratta, naturalmente, che presuppone che i cittadini si accordino per ottenere un risultato condiviso. In questo senso il piano non prevede ma dichiara intenzioni; possiamo dire che è tutto dentro il presente perché le intenzioni sono quelle espresse oggi da chi oggi ha il potere e l’autorità di farlo. Naturalmente, detto così, è estremamente superficiale; tuttavia ritengo che collocare il principio della pianificazione nel quadro delle dichiarazioni di intenzioni sancite con un patto, è però un modo ragionevole per mantenere la responsabilità individuale e collettiva nel scegliere e nel perseguire gli obiettivi. Insomma, l’obiettivo da raggiungere non deve essere considerato una previsione ma piuttosto una scelta o, se credi, una previsione autoavverantesi…
ARN: L’affermazione è alquanto singolare perché si può scegliere tra obiettivi che si prevedono come possibili.
EC: Certo, però voglio mettere l’accento sul fatto che la possibilità di prevedere dipende in gran parte dal modo col quale una società è governata “oggi”; per una società senza governo il futuro è sempre imprevedibile e comunque anche se certi guai sono annunciati alla fine non sono evitati (e si preferisce metterli nella sfera dell’imprevisto). L’uomo storico è colui che ricorda, prevede e sceglie. Ma vorrei tornare agli scenari nei quali matura un piano. Credo, abbiano grande influenza i condizionamenti generali, le idee correnti ma anche i comportamenti e le manifestazioni culturali che, per così dire, segnano i tempi. Inutile dire che gli anni ’90 sono gli anni della globalizzazione, dell’idea che allargando il mercato e diffondendo il capitalismo liberale si sarebbe estesa anche la libertà, la democrazia e il benessere – che soltanto per inciso veniva etichettato come “equo compatibile”. Sembrava ci fosse un accordo quasi generale sui presupposti del modello unico e quindi la questione di fondo diventa come partecipare allo sviluppo economico promesso dalla globalizzazione, interpretandola alla scala locale. E questo influenzò significativamente i modi di pensare i piani.
ARN: E in particolare, per Cagliari?
EC: Sono questioni che agiscono in profondità, anche a livello personale. Io, (che prevalentemente vivevo nell’oasi un po’ ristretta dell’Università) ho assistito con un certo stupore alla rapidità con la quale si modificavano i parametri fondamentali della nostra vita. Mi sembrava di assistere alla “dilatazione dello spazio e alla contrazione del tempo” con effetti immediati anche sulla quotidianità dell’esperienza; quasi ogni luogo della Terra sembrava raggiungibile e aveva una sua presenza; reciprocamente il tempo si contraeva – si diceva appunto “in tempo reale” per significare che il prima e il dopo si contraggono fino a combaciare. Ma non per via teorica; siamo passati da corsi monotematici che duravano un anno e da tesi di laurea che magari ne duravano altri due o tre, a laboratori semestrali e trimestrali pluridisciplinari con la consegna quasi istantanea di progetti che soltanto l’elaborazione elettronica consentiva. Nel mentre gli studenti facevano esperienza di diversi luoghi con l’Erasmus e i “visiting professor” creavano nuove vicinanze. Insomma, ci sono stati molti aspetti della globalizzazione che attingevano al modo di pensare e di essere, con effetti ovviamente anche su come pensare la città. Per gli analisti economici le città dovevano competere e fare rete all’interno dell’universo globale. Per chi si interessava della città sembrava invece che “il locale” e in particolare le città dovessero quasi rifondare le loro ragioni.
ARN: E qui sono state necessarie nuove idee per la città?
EC: No, più che nuove idee era necessario mettere alla prova quelle sulle quali si era lavorato da anni. Prendiamo, per esempio, la questione dell’identità, che nel nostro ambito di studio, per varie ragioni, era all’attenzione da tempo, con diversi intendimenti. Di tenere saldi i valori della tradizione, ad esempio, di saperne leggere i segni nell’insediamento e nel paesaggio, riconoscere il valore dell’identità nel costruire lo spazio comunitario e il valore dello spazio nell’esplicitare l’identità, ecc. Adesso la sfida era diversa: rileggere l’identità come generatrice di progetto e, viceversa, il progetto come generatore di identità. Ciò che, in definitiva, porta a mettere in primo piano “il progetto culturale”, e quindi a domandarsi come deve essere impostato un piano e a rileggere i contributi che il piano può dare per questioni così complesse. E dunque, all’atto pratico, concepire il piano come progetto di conoscenza; un progetto che deve essere partecipato e che deve essere permanente. I tentativi che abbiamo fatto in tal senso non hanno avuto molte conseguenze: molto del lavoro di indagine era stato tradotto in due “Atlanti” che, nelle nostre ipotesi, costituivano il nucleo di partenza per un processo continuo: depositati nelle sedi delle Circoscrizioni (allora a Cagliari ce n’erano undici) dovevano essere un primo contatto dei cittadini con le procedure di lettura della città per alimentare il senso dell’appartenenza… Alla città, come alla cultura, si appartiene (e come i Beni Comuni, non si posseggono).
ARN: Utopie forse necessarie, non discuto, ma per la città servono idee più concrete, orizzonti più praticabili…
EC: Infatti si possono tessere molti discorsi che rispecchiano sfaccettature della città complessa e, a loro modo, rappresentano visioni di orientamento: “la città ambientale” è uno di questi (uno slogan suggerito da Emanuela Abis); il dialogo stupefacente che si è instaurato tra la potente geografia del luogo e l’impianto storico della città, aumenta il disagio per molte banalità dell’insediamento recente. Ma la visione di città ambientale offre altre valutazioni sulla grande dimensione della città: un grande insieme di acque interne, di mare, di colli, di verde; una grande unità di paesaggio ormai codificata dal Piano Paesaggistico Regionale, senza finzioni amministrative. E poi, il concetto di città ambientale rinnova il rapporto con l’ecologia, rigorosamente scientifica nelle sue molteplici componenti ma per molto tempo è rimasto irrisolto il dialogo con l’urbanistica. Su questi punti si erano compiuti molti avanzamenti: basta ricordare che i piani di quella generazione nascevano come Piani in adeguamento ai Piani Territoriali Paesaggistici, introdotti già con la legge dell’89, che in quegli anni andavano a compimento, pur con tutti i crismi per il prossimo annullamento. In ogni caso, la base geologica, la morfologia geografica, i reticoli idrici, le trame agrarie e vegetazionali e tutto quello che si identificava come “morfologia ambientale” (e qui bisogna ricordare le anticipazioni di Fernando Clemente e della sua Scuola) era concepito come il quadro di sfondo sul quale l’insediamento aveva delineato le sue regole insediative (con riferimento all’antropogeografia gregottiana). Di questo percorso, costruito insieme al multiforme ingegno di Fausto Pani c’è naturalmente il rendiconto puntuale in una parte degli Atlanti – La città fisica.
ARN: Ma con quali effetti sulla concezione del piano e in particolare sugli aspetti normativi?
EC: E certo, il piano si traduce in norma; per questo abbiamo voluto spesso sintetizzare il processo del piano con un altro slogan: “dal progetto alla norma”, anche qui ribaltando il principio – ovvio – che, viceversa, fa derivare il progetto dalla norma; si usa in questi casi il concetto di “progetto guida” (ad esempio Bruno Gabrielli nel piano di Sassari) perché lo schema di progetto si propone come corretta applicazione della norma. Noi abbiamo considerato l’apparato normativo come l’atto finale e definitivo del piano, mentre abbiamo voluto considerare il progetto come il modo per pensare il piano, come ho detto prima, per esplorare con il progetto e concludere poi con la norma. E qui voglio ribadire l’importanza del “riferimento al tutto” che ho introdotto prima per via concettuale necessariamente confusa. La funzione esplorativa del progetto implica che ogni tema sia visto sempre in relazione a tutta la città e la sua funzione è comprendere le relazioni di reciprocità tra il tutto e la parte [6] per proporre i principi e le regole tipomorfologiche che saranno comunque messi alla prova nel “divenire” della città.
Le tematiche che abbiamo trattato prima sulla città ambientale, ad esempio, sono alla base delle normative dettate per quella parte di città che abbiamo chiamato “la città in trasformazione”, la parte di città che deve ridefinire o addirittura proporre ex novo il proprio impianto urbanistico. Le alternative progettuali che abbiamo esplorato hanno definito il criterio dal quale discende il principio su cui si imposterà la norma: “nella città in trasformazione il protagonista è il vuoto”. Per ricostituire e generare nuove unità morfologiche deve essere salvaguardato e progettato il connettivo: l’edificazione, ivi compresi standard e accessori, si concentra in ambiti individuati dal piano (per altro con densità simili a quelli della città esistente) e il resto dell’area di intervento, con percentuali elevate tra il 60 e il 70% è libero da edificazione come verde privato (con possibilità di attrezzature per la fruizione ambientale). Nella prima adozione del ’98 si proponeva che per conseguire la coerenza dell’insieme, le modalità e le attrezzature realizzabili da parte del privato venissero definite in accordo con indicazioni programmatiche dell’Amministrazione. Il CORECO (Comitato Regionale di Controllo) valutò la norma lesiva del diritto di proprietà e annullò per “eccesso di potere”. Comunque le norme previste per la città in trasformazione non ebbero nessun effetto perché il piano fu definitivamente adottato nel 2004 e nel 2006, l’entrata in vigore del PPR escluse nuovi interventi in ambiti non strutturati fino all’adeguamento al PPR e al PAI (attualmente in corso).
ARN: Lasciamo altre sfogliature, come dice lei, su altre letture che compaiono nelle relazioni, temi proposti come rilevanti per la città – la città della stratificazione storica (passato e presente), della cultura e dell’organizzazione del sapere e della ricerca, del turismo e dell’accoglienza… – ma, senza dilungarci troppo, visto che abbiamo parlato di quello che non è stato applicato, possiamo sentire qualcosa su quello che è stato fatto…
EC: Ma per questo ci sono le relazioni recenti sullo stato di attuazione del Piano che colgono le principali carenze e le diverse criticità nel gestire la città attraverso norme complesse. Mi sembra utile piuttosto riprendere la questione fondamentale della riqualificazione della città esistente, quella parte identificata come città compatta, quella parte di città nella quale con diversi gradi l’urbanizzazione ha consolidato le sue trame. Mi sembra utile perché è ancora l’argomento principale sul quale sarà necessario farsi guidare da nuove visioni.
Se vogliamo ricordare il passato, partirei dal principio proposto per derivare la norma per la città consolidata: “Nella città consolidata il protagonista è il costruito”, che è come mettere l’accento sulla edificazione, sulla parte “minuta” della città nella sua complicata fisicità. In urbanistica questa questione si complica perché “urbanizzazione ed edificazione” sono implicate sempre congiuntamente e il costruito è sempre quella complessità stratificata di impianti e di tipi edilizi. Nella relazione preliminare l’argomento è ripreso da (molto) lontano, un principio enunciato alla metà del Settecento da Laugier, (poi ripreso da Le Corbusier) per abbellire Parigi, allora una caotica città medioevale prevalentemente di legno, che aveva portato l’abate a definire la città “come una foresta” e ad indicare come metodo di intervento quello seguito dai progettisti dei parchi che introducono, in un contesto liberamente naturale, i principi del loro ordinamento spaziale: un criterio rigoroso per un principio semplice: “l’ordine dell’insieme, il tumulto dei dettagli”.
Come graduare i principi di ordinamento con la libertà necessaria al tumultuare della vita, come garantire che la massima flessibilità d’uso dello spazio privato consenta comunque la qualità spaziale dei contesti urbani? Inutile dire che le prescrizioni legislative, ma anche la prassi progettuale, non hanno neppure posto il problema: le così dette “zone B” sono normalmente trattate con il ricorso a normative generali (e dunque generiche) e con il rimando a successivi piani particolareggiati di improbabile realizzazione. E così si è arrivati in definitiva ai “Piani Casa” (ognuno padrone a casa propria e nessuno responsabile della propria città) piani a termine ma costantemente rinnovati. La proposta che abbiamo fatto nel Piano non esce, evidentemente, dalla sfera teorica che ha il suo principio nel concetto di “quadro normativo”: si è partiti da “spazializzare” la conoscenza (renderla il più possibile diffusa) per passare a spazializzare il progetto (articolarlo per ambiti urbani) per poter infine spazializzare la norma, scriverla cioè con obiettivi localizzati per ambiti urbani definiti: quadri normativi per quadri urbani, utilizzando questa vecchia dizione per far riferimento alle articolazioni morfologiche dello spazio urbano. Nello schema di norma proposto si faceva riferimento ai bacini urbanistici utilizzati per quantificare gli standard come ambiti di articolazione dello spazio per il progetto urbano, ma questo passaggio intermedio non è stato affrontato.
ARN: Veniamo all’oggi: quali priorità per pensare ancora alla città?
EC: Questo periodo ha inciso fortemente sulla vita delle persone e ci sono molte ragioni per farsi qualche domanda anche sul futuro. I giornali e le televisioni hanno dato largo spazio, soprattutto nei momenti del lockdown, a diversi punti di vista (oscillanti tra “il cambierà tutto” o “non cambierà niente”) e, in particolare, alle opinioni degli architetti… Sarà opportuno modificare gli schemi funzionali delle abitazioni, ricavando spazi flessibili capaci di offrire occasioni d’uso diverse (dal vivere familiare, allo svago individuale, a nuove funzioni e allo “smart working”); sarà necessario prevedere maggior spazio per ciascun abitante; qualcuno opterà per la riscoperta dei borghi, con le abitazioni e la struttura urbanistica tradizionale, forse più consona ai modelli di vita che si preferiranno. Molti cambiamenti potranno riguardare le città, con più piste ciclabili, con più boschi nuovamente orizzontali, con più attenzione alle criticità che la ricerca scientifica va preannunciando.
Ma, lasciando da parte le molte cose estemporanee che si possono legittimamente profetizzare, metterò l’accento su due cose che mi sembrano importanti per il prossimo (breve?) periodo. Anzi tre, perché ho già ricordato in altra sede il primo concorso nazionale della storia, bandito in uno dei periodi più tragici della Rivoluzione francese (gli anni ’93 ’94 del Direttorio): un grande concorso esteso a più di venti settori artistici, libero (tutte le accademie erano state abolite), democratico (la giuria fu eletta dai partecipanti al concorso). Anche se gli esiti furono assolutamente minimali e praticamente senza effetti, tuttavia quella grande collettiva “chiamata alle arti” ha, in sé, qualcosa di potentemente suggestivo: chiamare a raccolta gli esploratori dell’immaginario, i costruttori di forme, significa avere fiducia nelle nuove invenzioni; e forse, per qualcuna di quelle invenzioni passerà la Storia.
Per indicare delle priorità al primo posto metterei un’ampia riflessione sul “locale”. Gli anni ’20-’30 di questo secolo si confrontano con un lungo elenco di scenari (per lo più) catastrofici: le previsioni demografiche e i flussi migratori che ne deriveranno; i cambiamenti climatici, lo scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento del livello dei mari; la desertificazione, gli incendi, la deforestazione ed eventi meteorologici sempre più disastrosi. L’economia è malata (papa Francesco) ma nessuno sa cosa fare, globalmente incapaci di governare i fattori di crisi di cui si parla da decenni (abbattimento delle emissioni, risparmi energetici e idrici, energie alternative, il riciclo integrale…). Sembra inevitabile ritornare sui principi: ricordo che all’origine di quello che sembrava un criterio corretto per affrontare le scelte di allora si assunse uno slogan di grande effetto: “pensare globalmente, agire localmente”. Ma in fondo, oggi, constatiamo che non abbiamo saputo pensare globalmente e neppure agire con coerenza localmente. Non solo per paradosso, credo che oggi i termini possano essere rovesciati: “pensare localmente per agire globalmente” e cioè partire da una fortissima consapevolezza locale e dalla convinzione che più problemi si risolvono localmente meno squilibri si originano globalmente e dunque proporsi localmente i grandi temi dei fabbisogni essenziali (alimentari, energetici, del lavoro e del benessere equo e compatibile). Proprio per non pensare il locale come un’isola è necessario che le visioni dei problemi siano adeguate e una lettura ampia del contesto in cui si colloca la città è necessario. L’Area metropolitana cagliaritana fino ad ora non ha accettato la sfida di governare il contesto. In ogni caso cambierei la visione della grande dimensione di tanti anni fa: allora gli aspetti prevalenti erano quelli della riorganizzazione insediativa e della salvaguardia ambientale; le visioni di oggi dovrebbero viceversa esplorare il mondo.
E poi, continuerei a mettere in elenco “la città esistente” per la quale, come ho cercato di dire prima, abbiamo comportamenti oscillanti e comunque poco ispirati. C’è stata una grande attenzione agli aspetti tecnici della rigenerazione, alle problematiche emergenziali (dal clima alle compatibilità ambientali ed economiche) alla diffusione di nuove tecnologie informatiche e trasportistiche per città sempre più smart ecc. ma un vero pensiero sui caratteri di una differente urbanità ancora manca.
La riflessione su Cagliari potrà partire da numerosi punti di forza: la città ha mantenuto una scala di rapporti che può ancora contare su sentimenti di appartenenza e il processo di rafforzamento delle qualità di insieme, attraverso i grandi progetti ambientali e infrastrutturali, è stato certamente notevole e dovrà ragionevolmente continuare. Tuttavia mi sembra ancora importante rileggere la “piccola scala”: molti pensieri possono essere derivati dalla recente esperienza che ha fatto reinterpretare la città in molti suoi aspetti e da molti punti di vista, facendo prendere coscienza dell’innaturale frammentazione che caratterizza oggi la città, non solo nei suoi aspetti fisici, ma anche nelle modalità d’uso. Ridefinire le soglie che hanno separato e frammentato lo spazio urbano e reinterpretare il rapporto tra il piccolo e il grande, con spazi amichevoli per nuove esperienze di rapporti sociali, può essere un ragionevole punto di attenzione per continuare ad aspirare a luoghi onorati dalla convivenza.
1. Incarico del Commissario prefettizio il 31 dicembre 1993.
2. È noto l’apologo dell’imperatore cinese che affida allo scultore di corte un grande e prezioso blocco di giada nel quale scolpire un simbolico leone. Passano diversi anni e nonostante le pressanti sollecitazioni dell’imperatore lo scultore non si decide a presentare la sua opera ed anzi, gli emissari riferiscono che il blocco è ancora intatto, mentre lo scultore passa intere giornate a guardarlo. Infine, lo scultore si presentò con la sua scultura, che raffigurava un magnifico drago... «Avevo chiesto un Leone» urlò l’imperatore; «Sì» – rispose lo scultore – «ma nel blocco di giada c’era il drago» e, a riprova, consegnò i pochi frammenti che aveva rimosso dal blocco per far emergere la figura del drago. Non ricordo come si conclude la vicenda; forse con grandi lodi allo scultore per la sua abilità, o, molto più probabilmente, con la sua decapitazione perché ha osato contrapporre ciò che c’è in un blocco di giada alla volontà dell’imperatore. (Non ricordo neppure da dove viene il raccontino e non sono neanche sicuro dei suoi contenuti...).
3. “In un composto sostanziale l’analisi non si arresta se non in una parte che non è un tutto, cioè nel semplice; analogamente la sintesi non si esaurisce se non in un tutto che non è più una parte, ossia nel MONDO”- E. Kant, Forma e principi del mondo sensibile e del mondo intellegibile, edizione con testo latino a fronte a cura di Ada Lamacchia, Rusconi libri, 1995, Milano.
4. Questa ricerca fu svolta con grande impegno da Marco Cadinu e Paolo Sanjust per il centro storico; da Salvatore Peluso per “Città nuova” e Andrea Casciu per i quartieri occidentali, da Cesarina Siddi per Pirri.
5. In quegli anni si iniziava a parlare anche di pianificazione strategica; erano stati affidati i Piani Urbanistici Provinciali e quello della Provincia di Cagliari era in istudio.
6. Nulla a che fare con l’idea di realizzare il piano attraverso progetti che vengono studiati isolatamente, resi autonomi e mandati in esecuzione (urbanistica contrattata).