Oggigiorno, vediamo la nebbia non perché essa esista, ma perché pittori e poeti ci hanno insegnato quale sia la misteriosa grazia del suo effetto. La nebbia può sempre esserci stata a Londra, e devo dire che è così. Ma nessuno l’ha vista, e non ne sapevamo niente; essa non è esistita fintanto che l’Arte non l’ha inventata.
La teoria che l’arte rappresenti un deposito virtuale della realtà, il suo spazio entropico cui l’esperienza attinge comprovandone empiricamente la verità, trova l’ennesima conferma nella situazione contemporanea, nelle conseguenze oggettive e soggettive di una pandemia, inopinata ma non per la letteratura che, dalle sue origini, intrattiene stretti rapporti con la malattia, e col contagio in special modo.
Lo scenario di malattia e morte allestito da uno sconosciuto virus ha improvvisamente restituito la coscienza della precarietà dell’esistente e rispolverato l’antico memento mori aggiornandone le modalità che, però, ancora una volta hanno confermato la forza immaginativa e visionaria della letteratura, nella fattispecie, del romanzo postumo di Guido Morselli, Dissipatio H.G., Adelphi, Milano 1977, che aveva previsto tutto facendone una rappresentazione tragicamente ironica.
Il misantropo e fobantropo protagonista, grazie a un fallito tentativo suicida, paradossalmente sfugge alla scomparsa del genere umano (cui si allude nel titolo), come può constatare tornando, dal suo eremo, nella città di Crisopoli, fino ad allora lo spazio dei vivi, inspiegabilmente e simultaneamente volatilizzatisi come in una sorta di improvvisa evaporazione dei corpi che hanno così liberato della loro presenza luoghi pubblici e privati, nonché la natura che, al contrario, vitale e indisturbata si riappropria dei territori già invasi e colonizzati dall’uomo, dal “capitale” che ne ha modellato lo spazio:
In mezzo ai binari vedo sfilare una famiglia di camosci. Due femmine, un maschio, e i cuccioli. Scesi a valle dai monti. Mai accaduto a memoria d’uomo. Del resto ho notato qualche altro segno di buon auspicio: gli uccelli fanno un baccano indiavolato, si sono moltiplicati. […] L’istinto li avverte di una novità in cui certo non speravano; il grande Nemico si è ritirato. Non ci sono più fumi nell’aria, a terra non ci sono più puzzi e frastuoni. (O genti, volevate lottare contro l’inquinamento? Semplice: bastava eliminare la razza inquinante) (53).
Nei mesi scorsi, i nostri porti guizzanti di delfini e gli spazi urbani popolati dai più svariati animali selvatici hanno duplicato, nella realtà, la natura liberata dall’uomo e lo spazio svuotato dall’umano: la «salma ancora calda della città» – scrive Morselli. Ma per quanto il romanzo abbia una rilevante qualità ermeneutica rispetto al reale nella sua contingenza, tuttavia diversamente dalla finzione romanzesca, il vivente umano, che rappresenta e assicura la Storia, ha manifestato un attaccamento tenace al dato storico, contrapponendosi con vitale resistenza ad ogni deriva da esso e dal razionale.
Il toponimo Crisopoli rimanda a un luogo tanto inesistente quanto verosimile nella contemporaneità, per la leggibilità delle sue caratteristiche: il denaro e il profitto come misura delle relazioni umane e sociali, la supremazia della ragione economica con le correlate conseguenze disumanizzanti e con la perdita della continuità uomo-natura. A queste affinità ampiamente scontate, dalle rivoluzioni industriali in poi, altre se ne aggiungono che rafforzano la capacità della letteratura di attivare processi di identificazione e offrire modelli alla domanda emotiva e intellettuale generata da situazioni estreme e, per molti versi, disperate.
Ma anche il romanzo si contamina alla nostra esistenza perché si arricchisce della lettura attuale e rilascia nuovi significati che prestano inquietanti elementi alla realtà e, al contempo, ci consentono di meglio mettere a fuoco le trasformazioni intervenute col lockdown e di riconoscerci nell’uniformità del comportamento umano di fronte alla catastrofe.
L’insistito vuoto della simulazione narrativa, dunque del fantastico, vs il pieno della realtà. Ma se l’affollamento, il traffico, il movimento improvvisamente scompaiono, tale realtà assume, a sua volta, tratti irreali: le trasformazioni intervenute nello spazio rendono presente e tangibile il tempo opaco e indefinibile del fantastico, ne fanno un qui e ora. L’infinito e l’eterno di spazio e tempo diventano percepibili. La pandemia è perdita del confine, sollecita gli interrogativi che il personaggio si pone: sarà così ovunque, ci saranno altri superstiti come me? Quanti i morti? È stata la nostra domanda quotidiana. Le vittorie per la libera circolazione di uomini e merci sono azzerate, si innalzano confini virtuali che non possono essere superati, tutto deve fermarsi dove e al punto in cui si trova in un dato momento: è la materializzazione stessa dell’idea di limite. I luoghi più intimi e privati, da rifugi per riposare e ritemprarsi, diventano spazi della costrizione, se ne scopre l’alienità rispetto all’esistenza sociale e, dunque, a se stessi.
A Crisopoli, luogo dell’utopia o della distopia (a seconda dei punti di vista), già governata dalla plutocrazia, il protagonista, vittima delle conseguenze della misteriosa pandemia che lo ha reso l’unico uomo vivente, scopre, non diversamente dalla nostra recente esperienza, quanto l’assenza degli abitanti azzeri la specificità dei luoghi, li espropri delle funzioni assegnate loro dagli uomini: sacre, sportive, culturali, economiche, sociali e affettive, rendendoli uniformi e trasformandoli in reperti, in coeva archeologia che fa a meno dell’azione del tempo, attivando però la conseguenza di costringere l’uomo a restituirsi a se stesso nudo, privo di identità sociale, in un realizzato sogno pirandelliano di caduta delle maschere.
Le coordinate spaziali e temporali del narratore errante, esiliato dal genere umano scomparso per ignoti motivi, sono definite dagli oggetti che continuano a funzionare ma, privi di funzione, restituiti al puro meccanismo ruotano intorno al solipsismo dell’uomo solo: «Relitti fonico-visivi mi tengono compagnia, e sono ciò che di più diretto mi rimanga di ‘loro’. […] Relitti inconsistenti e ormai reliquie. Da quella notte un mezzo mese è trascorso, e potrei dire altrettanto bene un mezzo secolo. Un lungo panico» (9). Eppure, l’angoscia della perdita di sé assieme al tempo e agli spazi consueti rinnova l’atavico vizio di costruire cultura proprio al fine di dominare la paura. Nel romanzo come nella nostra presente realtà, la visione, l’immaginazione, il gesto, l’immagine e la parola sfidano l’assenza e la morte inventando nuove funzioni per restituire senso, scopo, rinnovata vita all’uniforme continuità dello spazio e agli oggetti che lo abitano, fossili inutili e spaesati nel loro stesso assetto. È lo sperimentato impulso che fonda le grandi costruzioni del pensiero come pure l’arte. Il personaggio romanzesco lo conferma su entrambi i fronti: con la realizzazione di un cenotafio alla memoria del genere umano, una sorta di scultura pop, che anticipa la prassi del riciclaggio e, in parte, la rotta dell’arte contemporanea, oltre naturalmente la polemica anticonsumismo:
[...] un furgoncino commerciale e una Mercedes coupé, formano la base del monumento, una ventina di televisori, tolti al Grande Emporio, il corpo. Sulle TV qualche apparecchio fotografico e di cinepresa, ceste di bottiglie di cocacola. In cima, all’altezza di tre metri circa da terra, un cartellone enorme, che riempiva una vetrina all’Agenzia di Viaggi. Un Kodachrome di metri 3 × 2, intimante una spiaggia, con la famosa arena bianca, delle Bahamas, e l’invito «Voliamo laggiù – dove la vita è migliore» (67).
Accanto agli oggetti ma parimenti in un catalogo, come fossero anch’essi merce, l’unico viandante umano instaura un dialogo parallelo con gli “ismi” contemporanei e con i protagonisti della cultura occidentale moderna: Dante, Dostoevskij, Proust, Pascal, Montaigne, Cartesio, Hegel, Nietzsche, Malinowski, Lévy-Bruhl, Lévi-Strauss, Marcuse, Durkheim, Freud e Jung, non ultimo il fittizio Robinson Crusoe, solitario e moderno spirito capitalista, con cui il narratore è costretto a identificarsi nonostante si professi un caustico fustigatore del capitalismo.
La grandiosità dello scibile umano, continuamente evocato, non risolve il problema del non essere dell’umano che l’esiliato si pone dal suo ormai disperato definirsi «ex-uomo», e sia pure alludendo alla possibilità che la fluttuazione del reale possa collegarsi a un istinto di morte che lo sovrasta: il cupio dissolvi, quella forma di alienazione dalla norma che giunge a Freud nel lungo viaggio dalla Bibbia a Paolo di Tarso.
Un attimo di illuminazione ci è stato comunque dato da condividere col nostro omologo temporaneo compagno di viaggio che, fuori dal tempo e dallo spazio, ha potuto verificare l’autoinganno dell’antropocentrismo e la menzogna di ogni escatologia nel negare che il mondo possa sopravviverci:
Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro (54).
Giovanna Caltagirone
già prof.ssa di Letteratura italiana moderna e contemporanea
presso l'Università di Cagliari