Rileggo ancora una volta la corposa intervista che Enrico Corti ha rilasciato ad Alfonso Ricci-Notero e che abbiamo di recente pubblicato su questo blog, intitolandola Il testimone.
Unʼintervista che – ne sono certo – soltanto una personalità come Ricci-Notero poteva raccogliere. E sulla quale, per la verità, non è semplice ritornare; non fosse altro che per quel suo continuo intrecciare dimensioni diverse, che si sovrappongono e sfumano lʼuna nellʼaltra, tra teoria (o teorie, disciplinari e no), introspezione, resoconto puntuale e storia.
Non è facile ma, sentendomi personalmente coinvolto, ritornarci sopra diventa una necessità impellente. È una necessità che forse ha a che fare con il tempo.
Certo, con il tempo trascorso da quando quella esperienza sul Piano di Cagliari è avvenuta, che è indubbiamente tanto, circa 25 anni. Ma, se fosse soltanto questo – cronologia, autobiografia... – sarebbe anche relativamente banale.
No, direi che è più una questione di tempo storico. È lʼurgenza di riguardare a quel lavoro con il distacco, appunto, dello storico.
Cʼè nellʼintervista un passaggio di Corti piuttosto esplicito, quando parla degli scenari nei quali matura un piano, con “... i condizionamenti generali, le idee correnti, ma anche i comportamenti e le manifestazioni culturali che segnano i tempi. Inutile dire che gli anni ʼ90 sono gli anni della globalizzazione...”.
Appunto: un piano del Novecento. Anzi, della fine del Novecento. E, proprio per questo, iper- novecentesco. Nel senso che, di questo passato XX secolo, è come se avesse assunto ognuno degli umori, eterogenei e disparati, a volte distanti tra loro, anche condraddittori, benché tutti incontestabilmente ascrivibili al Novecento. E poi altri elementi ancora, indistinti, non precisamente afferrabili, perché prodromi di ciò che stava per accadere.
Fenomeno forse comune ad ogni esperienza di passaggio tra un secolo e un altro, ma comunque evidente nellʼultima recente transizione, le “relazioni pericolose”, o il cortocircuito, se si vuole, tra il bagaglio consolidato di un ciclo che si conclude e le sollecitazioni, insieme dirompenti e incerte, di un nuovo scenario in fieri, provocano spaesamento e difficoltà di interpretazione.
Tanto più, appunto, per il passaggio conclusivo del “secolo breve” che invece, sotto molti punti di vista, mi sembra sia stato un secolo piuttosto lungo, cui in fondo restiamo ancora fortemente aggrappati, dal quale non riusciamo a staccare gli occhi, quasi fossimo come quellʼangelo di Klee che Benjamin commentava con la celebre tesi di filosofia della storia: “C'è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato... Egli vorrebbe ben trattenersi... Ma una tempesta spira dal paradiso... Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro...”.
Da Klee e Benjamin (a proposito: ancora il Novecento...) al retrobottega dello studio.
Il passo è spericolato, la discesa forse troppo precipitosa, ma lʼAngelo della storia mi perdonerà. Vorrei ritornare al concreto operare di quegli anni ʼ90, alle “tecniche di produzione”, perché, aldilà dellʼaneddotica o delle venature di nostalgia, anche gli strumenti che maneggiavamo possono ben raccontare – e non soltanto metaforicamente – una condizione “di passaggio”, nella quale matite e megabyte trovavano insospettabili accordi.
Lo scanner, per esempio.
Un misterioso e costosissimo strumento che scoprivamo allora, orecchiandone lʼesistenza dal mondo dei grafici, e che magicamente trasformava un disegno manuale su carta in un file.
Roba da Blade Runner... E, un poʼ come nella Los Angeles del 2019 (!) di Blade Runner, in fondo, ci permetteva di muoverci in un mondo spurio, tra armamentari del passato e nuove mirabilia tecnologiche.
Così, le grandi tavole del Piano per progetti – disegnate con le matite colorate su una copia eliografica, a sua volta esito di un collage di fotocopie su carta lucida delle singole tavolette cartografiche (sic!) – venivano con qualche fatica rimesse in gioco.
Diventavano “digitali”, e potevano affiancare la parte CAD, a condizione però che si riuscisse a governare la dimensione dei file, e così renderli compatibili con le esigue capacità delle memorie disponibili al momento.
Ma anche il CAD era un territorio parzialmente inesplorato, non tanto per le sue funzionalità più ovvie, il disegnare, quanto per la gestione, stratificata e strutturata, della mole di informazioni, che provenivano dalle fonti più diverse, e che confluivano nelle carte tematiche e nella cartografia di piano.
Non era ancora un GIS o un sistema informativo, però la scoperta di quelle potenzialità nel trattare il dato numerico in relazione allo spazio portava nuove ipotesi di lavoro, da inventare e sperimentare.
Insomma: ripensare oggi a quel “retrobottega” fa capire quanto, dal punto di vista della strumentazione materiale, fossimo davvero in una condizione di passaggio, e tenessimo insieme – con una naturalezza a volte persino eccessiva, e una consapevolezza forse non sempre completa – pezzi di due epoche (e mondi) differenti.
Ma, naturalmente, questo non riguarda soltanto la strumentazione materiale. Lʼintero impianto concettuale del Piano, e la stessa intervista di Corti lo testimonia, se per un verso è fortemente radicato nella cultura del Novecento – attraversandola idealmente tutta, da Cerdà a Vittorio Gregotti e Bernardo Secchi – per un altro intuisce e coglie le grandi questioni di un futuro prossimo che già lanciava i suoi segnali.
Dal tema del rapporto tra globale e locale, con quella dirompente “dilatazione dello spazio e contrazione del tempo”, come efficacemente dice Corti, allʼecologia e allʼambiente, o, ancora, alla complessa interazione tra norma e progetto.
Ma poi venne la Grande Pialla. Lʼinesorabile macchina normalizzatrice che, dalle nostre parti, tutto riduce e screma.
È lʼapparato, bellezza! Non è un complotto, non cʼè una consapevolezza malvagia (e nemmeno di altro tipo, temo), soltanto una somma di reazioni indipendenti e sparse – burocratiche, politiche, tecniche, amministrative, ... – il cui effetto complessivo è però univoco, e sembra essere, questo sì, indifferente al tempo storico, a questo secolo o a quellʼaltro. Normalizzare. Riuscire a separare e mantenere ciò che rientra nella rassicurante seppur complicata griglia del tecnocraticamente noto, e neutralizzare tutto il resto.
Accade dunque che la parte più innovativa delle regole sulla “Città in trasformazione”, per la quale era così forte lʼattenzione alla qualità e alla struttura degli spazi aperti di connessione, e dove lo slogan “dal progetto alla norma” doveva trovare la sua più specifica applicazione, venga considerata “eccesso di potere”.
Accade anche che il “Piano per progetti” si inabissi dopo una fugace apparizione nella fase dellʼapprovazione definitiva; salvo riapparire molti anni dopo, sebbene con una funzione esclusivamente esornativa, sulla copertina della pagina tematica del sito web del Comune.
E che cosa dire dei “Quaderni del Piano” e degli “Atlanti”? In formato A3, concepiti per dare concretezza ad uno degli assunti fondativi – cioè pensare il Piano come progetto di conoscenza collettiva – anziché diventare strumento di un processo di partecipazione diffuso e continuo, rimangono editi esclusivamente nelle due copie di prova prodotte artigianalmente in studio.
Si potrebbe continuare, e dʼaltra parte anche nellʼintervista di Corti i riferimenti non mancano. Ma è interessante notare, invece, qual è il nocciolo duro che la Grande Pialla ha fatto salvo e mantenuto.
È la zonizzazione, ovviamente. Quella fatta – e non poteva essere altrimenti – secondo le imperiture norme del cosiddetto “decreto Floris”, nelle quali il parametro che conta davvero – lʼastro risplendente al centro del sistema, e intorno al quale tutto ruota – è lʼindice fondiario.
Altro rimarchevole caso di impermeabilità al tempo storico e ai secoli che si susseguono, quelle norme costituiscono tuttora, dalla fine degli anni ʼ70 (hanno quindi passato i 50 anni e scavalcato impunemente il Novecento), lʼunico vero e inviolabile riferimento per la pianificazione urbana in Sardegna.
Caro Enrico, e caro Alfonso, mi capita tra le mani, proprio mentre concludo queste note, un prezioso volume ormai dʼepoca. È del 1954, ha una copertina rosso fuoco con, in bianco, la trama del planovolumetrico di un progetto per un centro civico e, sovraimpresso con tratto amaranto, il disegno anatomico di un cuore. Il titolo è “Il cuore della città”, e contiene i materiali dellʼVIII CIAM (Congrès Internationaux dʼArchitecture Moderne), tenuto a Hoddesdon nellʼestate del 1951.
Mi soffermo su un passaggio dellʼintroduzione, che è poi la trascrizione di un intervento di Le Corbusier al convegno stesso. E a quel punto mi torna in mente, per opposizione, una recente lettera di Jacques Herzog a David Chipperfield, pubblicata su Domus lo scorso ottobre.
La differenza di accento è palese: visionaria generosità versus pragmatico cinismo, verrebbe da dire, magari con una sintesi estrema.
Metto in coda i due estratti, con una domanda: possono queste due citazioni rappresentare efficacemente lo spirito del XX secolo e quello del XXI?
Quelli dei CIAM, possedendo una loro dottrina urbanistica, hanno acquistato uno strumento formidabile di organizzazione sociale e sono così in grado di dare un aspetto concreto a questa indispensabile tappa dellʼevoluzione moderna, sia con i loro piani, sia intervenendo nella vita pubblica, perché essi vogliono far regnare lʼarmonia, cioè infondere simpatia alle cose e alle persone; agli uomini, nei loro rapporti reciproci, nel loro lavoro, e nella benefica comunione con le ricchezze del creato.
Caro David,
mi chiedi cosa dovremmo fare noi architetti riguardo alla catastrofe ambientale che indubbiamente è ormai prossima. Alle disuguaglianze sociali. Alla povertà. Allʼesaurimento delle risorse di questo pianeta. Riguardo alla pandemia, che ci ha posti in una condizione quasi surreale, difficile da descrivere. Quando tutto ciò è gestito da leader politici, il cui cinismo e le cui azioni insensate farebbero impallidire i fratelli Marx.
Caro David, la risposta è: niente.
Sai indicare un momento della storia dellʼarchitettura in cui un architetto abbia contribuito alle questioni fondamentali della società? Gli architetti hanno sempre tenuto compagnia ai potenti del mondo. Hanno costruito palazzi, templi, stadi, intere città. La maggior parte, assecondando lo spirito dei tempi e raramente come espressione di progresso e cambiamento.
Salvatore Peluso