Del prevenire i danni
e intercettare le cause.
Un po' di pessimismo non guasta!
È difficile scrivere qualsiasi cosa in questo momento per tanti motivi. La “tuttologia” dello scrivere getta nel vuoto e rende vani i pensieri positivi del mondo, e l’impatto con la realtà rende molto più duro credere che scrivere possa alleviare l’angoscia del vivere la quotidianità. Dunque la retorica sta dietro l’angolo della giornata passata a svolgere le nostre attività, in regime di costrizione, ma non impedisce reazioni e considerazioni di vario tipo.
Una prima considerazione è quella che non abbiamo inventato nulla. Nel divenire urbano l’incombere delle epidemie ha sempre seguito crisi profonde, crisi epocali in cui le poche speranze sopravvissute risiedevano nella possibilità, concessa a molti, di riformulare gli spazi e cercare nuovi livelli di relazioni. Questi aspetti hanno informato e permeato i tessuti urbani e le storie di vita dando luogo all’evoluzione tecnica dei saperi.
Oggi noi abbiamo “perso” i saperi. Abbiamo anche perso la capacità di riflettere sulle modalità che sono intervenute nella perdita dei saperi e abbiamo difficoltà a ripercorrere l’episteme eclettico di quella dispersione. Dunque oggi, cioè nella nostra epoca, igiene e città si incontrano senza avere previsto i danni ed intercettato le cause… e il risultato è sotto i nostri occhi.
Le epidemie (di diverso tipo, non solo pandemiche di malattie mortali) si diffondono in modo inversamente proporzionale alla incapacità di coltivare la conoscenza. Il dramma apocalittico che stiamo vivendo ci coglie deboli e sommessi di fronte all’autocelebrazione delle tecniche e tecnologie più avanzate che, però, non ci consentono di dominare l’universo urbano integralmente, né mai lo faranno!
Una certa visione da “superpoteri” la si coglie anche nei primi tentativi strutturati di dare corpo agli interessi verso l’epidemiologia urbana diffusa, in una perfetta sintonia di corpi (malati) e anime (leggiadre e volanti) tra tradizione, nuova conoscenza e pluralità di prospettive ermeneutiche. Così l’Enciclopédie di Diderot e d’Alambert costruisce i fondamenti del tecnico progettista dell’Ecole des Ponts et Chaussées, crea le condizioni per la Société royale de Médecine, avviando la stagione delle inchieste di igiene e sanità che contribuiscono a migliorare le dotazioni e le attrezzature collettive.
Si tratta di revisione degli apparati di conoscenza collettivi di metodi e tecniche nuovi supportati da una curiosità invadente e invasiva tipica del periodo che culmina con l’apogeo degli Atlanti. I maestosi Atlanti della conoscenza. La bellezza del Cadastre de Paris par îlot, altrimenti noto come Atlas Vasserot (1810-1836) e l’aggiornamento per la rive droit, la versione Vasserot et Bellanger (1830-1850) costituiscono il cuore pulsante di assetti plurali ripetuti e consolidati, in cui nulla è dato al caso.
Conoscere per sapere, conoscere per intercettare, conoscere per crescere nella consapevolezza rassicurante che potremo dare luogo ad un nuovo tipo di società, meno ingannevole di respiri superficiali e falsamente analitici e più omogenea e rappresentativa di patrimoni comunitari che non si autogenerano casualmente.
Le grandi costruzioni territoriali hanno sempre portato a forti separazioni spaziali, ma mai come in quest’epoca del disuso della conoscenza. La città biopolitica, la biopolitica dello spazio che Foucault rintracciava nella dicotomia di guerra e di pace ha creato la mitologia della sicurezza, ma ormai non siamo in grado di rendere sicuro più nulla perché l’approccio alla conoscenza ha perduto la sua sistematicità, mentre ha rinsaldato la dismissione del valore della stessa conoscenza.
La città di Ippodamo si è sfaldata ed il principio di uguaglianza (ma non fu nemmeno quella vera uguaglianza!), che predispone all’igiene e alla sicurezza, non ricolma più le plaghe del reale. Eppure quella tradizione aveva portato il sistema della conoscenza verso uno dei modelli più compiuti di ricerca del corretto equilibrio tra ricchezza e povertà, tra difformità e bellezza, tra stravaganza e normalità, tra isonomia e disparità, impostando viceversa il dominio della superficialità e l’atropia sul dolore.
La città di Ippodamo si è rivoltata contro se stessa, il nesso sapere/potere, che organizza e disegna lo spazio non è più al centro della discussione e vaga miseramente in cerca di nuove legittimazioni che stentano a venire.
Non saranno le tecnologie che affineranno i pensieri dei primi e degli ultimi, la ormai rarefatta panacea della “smartizzazione”, senza regole e senza confini, appiattitrice di competenze, non garantirà il superamento del baratro e le tanto agognate autonomie delle dotazioni collettive, pur sempre refrattarie nel nostro modello occidentale a garantire un “posticino” per tutti, non ricaveranno benefici da tali condizioni, anzi impoveriranno ulteriormente.
Forse ci salverà la ritrovata forza del pensiero e della ricerca tesa a ritrovare la conoscenza, quella utile, strutturata che non teme confronti e non si lascia intimidire dai tentativi di omologazione. Questa sola ci consentirà di prevenire i danni e intercettare le cause.
Anna Maria Colavitti
Professore Associato di Pianificazione Urbana e Territoriale
Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e Architettura (DICAAR) – Università di Cagliari