Frammento #3
«Lo spazio aperto della città non è più un teatro collettivo dove “qualcosa” accade: non resta più nessun “qualcosa” collettivo», o anche, come lo stesso autore scrive più avanti: «La serenità della Città Generica si compie tramite l'evacuazione della sfera pubblica, come in un'esercitazione anti-incendio». Queste dichiarazioni, sufficientemente ambigue da rimanere sospese tra la constatazione di una condizione e l'entusiasmo per essa, sono state scritte per anni dallo stesso Rem Koolhaas che ha invece improvvisamente condannato, nel suo articolo sul Corriere del 23 luglio, il disordine morale della città globalizzata. Tutti possiamo cambiare idea, ma si tratta qui di un pentimento, di un'autocritica, oppure, come si potrebbe pensare malignamente, di un intelligente nuovo spiazzamento di chi si sente giunto al limite del paradosso delle sue stesse idee?1
Nell’agosto del 2008, con un elzeviro sul Corriere della Sera Vittorio Gregotti2 ribatte con apprezzabile vivacità, ad un articolo di Rem Koolhaas nel quale, rovesciando gli argomenti sostenuti per vent’anni, l’autore muove profonde critiche, “alle condizioni urbane in via di violento sviluppo in Cina, Dubai, Florida, Singapore, Berlino e Las Vegas, dimenticando però che alla corruzione della loro architettura anti-urbana hanno dato un contributo essenziale proprio le ideologie (nel senso di false coscienze) propagandate per anni con coerenza dallo stesso Koolhaas; con la predicazione scritta e con i suoi genialmente disastrosi costruiti che sono un esempio «di eccentricità e di stravaganza», come egli scrive, per mezzo proprio del «calo della partecipazione pubblica nella riflessione sulla città» a sua volta prodotta, io dico, dalla riduzione dell'architettura ad oggetto di «design» provvisorio ed intercambiabile”.
Continuità-identità
(Ricordando Gregotti e Secchi...)
Gran parte delle riflessioni sulla città, sul piano, sul progetto urbano e sul progetto di architettura hanno avuto in Casabella (che dal 1982 al ’96 è stata diretta da Gregotti con il contributo sostanziale di Bernardo Secchi) il luogo privilegiato per il consolidamento e la maturazione in coerenti teorie di progetto. Eppure, se riguardate oggi, le teorie espresse allora rivelano, da un lato tutta la loro saldezza culturale e, congiuntamente, la loro distanza storica: rappresentano più la definitiva chiusura di un’epoca, piuttosto che la visione di eventi futuri. Molti scritti, pur datati dopo l’89, dopo l’evento che avrebbe trasformato il mondo, enunciano l’idea di progetto della città come prodotta negli anni Ottanta, si indaga un nuovo rapporto possibile tra piano e progetto, che si sostanzia di un approccio all’architettura della città basato su strumenti concettuali aperti, quali “regole”, “materiali”, “progetto di suolo” e “principio insediativo”3. Il riferimento al “modus” e alla conseguente definizione di progetto a tutte le scale come “modificazione” esplicita, non solo teoricamente, il principio di continuità: come la natura anche la città non fa salti, ed è a questo principio di continuità che si àncora il principio più controverso di identità.
L’identità come problema4
In termini di progetto urbano si cerca di confrontarsi non con il cambiamento bensì con il divenire della città, perché “lavorare sul divenire di una città significa avere una coscienza acuta della sua identità”5; è questa coscienza che può orientare il cambiamento: un cambiamento che si decide in funzione di quello che precede, che esplora il futuro contenuto nelle radici profonde della città.
Nelle discipline progettuali il concetto di identità si è trascritto nel concetto di luogo: il luogo esiste come tale in quanto abitato come polis (politicamente) ed elaborato culturalmente (poeticamente) in un processo storico di lunga durata; l’elaborazione politica e culturale di un luogo è un processo di appropriazione materiale, di adesione e di appartenenza immaginativa di una comunità ad uno spazio antropo-geografico. E’ così possibile traslare dalla comunità al territorio, i termini e le figure definenti l’identità; interpretare lo spazio dell’insediamento come paesaggio riconoscendovi i processi della elaborazione politico-culturale comunitaria, i presupposti del suo divenire nel presente, cioè del suo costituirsi progettualmente.
Ha detto Giancarlo de Carlo (in una intervista su Spazio e Società): «Quando si colpisce alla radice il principio di identità si apre la strada alla formazione di stati di passività generalizzata, dove non c’è posto per la critica. La critica comincia infatti nella registrazione del proprio modo di consistere nello spazio fisico e si sviluppa attraverso il confronto con il modo di consistere di altri nello stesso spazio e in altri spazi vicini e lontani. Non c’è critica senza un sistema di coordinate sul quale si possono tessere idee...».
Ma senza critica, come è noto, non ci può essere progetto. Il rapporto fra identità e progetto ha, di conseguenza, molte valenze: non solo, come s’è detto, l’identità è progetto, ma anche, reciprocamente, il progetto – essendone la forma costitutiva – è identità. Ogni consapevole intenzione progettuale presuppone l’indispensabile riconquista dell’identità e questo spinge ad interrogarci sulle modalità che oggi, nell’era della globalizzazione, può assumere questa riconquista, o, in altri termini, sulla possibilità di progettare l’identità locale in una proiezione globale; una identità che deriva dal registrare criticamente il modo di consistere nello spazio, e dunque del suo essere essenzialmente progetto che filtra e interpreta le proteiformi figure con le quali i cittadini registrano il loro modo di esistere nello spazio e giudicano la loro città.
Non c’è critica [quindi progetto] senza un sistema di coordinate sul quale si possano tessere idee...
Enrico A. Corti
Ingegnere – già docente di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà Ingegneria e Architettura – Università di Cagliari
1. V. Gregotti, Caro Koolhaas, basta slogan. Risposta all'architetto olandese, in «Corriere della Sera», 5 agosto 2008, p. 39. Si veda anche R. Koolhaas, Il dominio dello ¥€$. In Oriente, Europa e America siamo alla globalizzazione privata, in «Corriere della Sera», 23 luglio 2008, p. 35.
2. Per le riflessioni sulla città non posso non partire da Vittorio Gregotti, per ciò che è stato e per ciò che ha rappresentato; purtroppo caduto vittima della COVID-19, ci priva ora delle sue idee sul dopo.
3. Una rilettura in F. Moschini, Modificazioni nella città del XXI secolo: lezioni di piano per la metropoli contemporanea, in «Anfione e Zeto», n. 25, 2014, pp. 121-131.
4. Testo estratto da E. A. Corti, Identità storiche e priorità progettuali, in G. G. Ortu (cur.), Cagliari, tra passato e futuro, CUEC, Cagliari 2004, pp. 355-375.
5. J.B.: - Una città può cambiare a vista d’occhio? Può essere certamente trasformata, modificata, ma “diventa” ancora qualcosa? Le città sono “diventate” qualcosa nel corso del tempo... Si può opporre al cambiamento un’altra esigenza? O bisogna piuttosto chiedersi: che cos’è il divenire di una città? / J.N.: - Lavorare sul divenire di una città significa implicitamente avere una coscienza acuta della sua identità ed obbliga a orientare il cambiamento... Il divenire di una città si decide in funzione di quello che precede e non di un futuro ipotetico e presumibilmente pianificato a lungo termine. Cfr. J. Baudrillard - J. Nouvel, Architettura e nulla. Oggetti singolari, Electa, Milano 2003.