Frammento #2
A partire dagli anni ’90 gli interrogativi sullo spazio della città si sono riproposti soprattutto a seguito delle prevalenti correnti che hanno privilegiato, per un verso, la concezione del Piano come marketing territoriale e dall’altro l’iperarchitettura per non meglio identificate ipercittà, per le quali lo spazio aperto non è più un teatro collettivo, non è più matrice di forme pubbliche di vita urbana, ma è un residuo concettuale, un sottoprodotto del tutto analogo a un rifiuto da eliminare: lo spazio spazzatura (junk-space) secondo la vulgata di Koolhaas. Riguardato con le tensioni di oggi, quel periodo sembra privo, almeno nelle prime letture, di una vera percezione dei cambiamenti che stavano avvenendo, come se non ci fossero questioni da decidere, alternative da praticare, una volta che, per un apparente unanime consenso, ci si era affidati a una scienza economica e a forme di governo dell’economia planetaria mai esplicitamente dichiarate. All’esigenza di fornire alcuni quadri interpretativi si poteva far fronte quasi esclusivamente attraverso citazioni provenienti dalla divulgazione di testi di matrice sociologica ed economica, quasi si trattasse sostanzialmente della “presa d’atto” di un quadro di sfondo sul quale le discipline del progetto architettonico e urbanistico dovessero ridefinire i loro statuti: la globalizzazione e la rivoluzione digitale (virtualizzazione) hanno rappresentato, in questo senso, i principali nodi di riflessione1.
Globalizzazione
Nei confronti della città, le prime conseguenze della globalizzazione annunciata potevano essere interpretate come portatrici di irrevocabili decadenze o di grandi speranze:
- nell’era della globalizzazione le città economicamente sono obsolete;
- il lavoro computerizzato può essere espletato ovunque (in particolare in aree meno congestionate e costose dei centri urbani);
- la crescita del settore dell’informazione e delle telecomunicazioni ha reso possibile la trasmissione istantanea in ogni parte del globo.
La prima rappresentazione della globalizzazione fu largamente incompleta: «Le immagini dominanti della globalizzazione – il trasferimento istantaneo del denaro da un punto all’altro della terra; l’economia dell’informazione; la neutralizzazione della distanza per mezzo della telematica – sono rappresentazioni inadeguate del reale significato che globalizzazione e economie dell’informazione rivestono per le città: mancano i concreti processi materiali, le attività e le infrastrutture che sono essenziali per la realizzazione della globalizzazione: ignorare la dimensione spaziale distorce il ruolo svolto dalle grandi città nell’attuale fase della globalizzazione economica»2. La globalizzazione – insegnò la Sassen – non sta su un altro pianeta; si porta appresso la necessità di organizzazione e quindi di infrastrutturazione che non coincide con le vecchie forme, ma è ben diversa da quella configurazione immateriale che per via astrattamente teorica si era immaginata. E non solo per le città globali, perché la globalizzazione implica e genera una molteplicità di gerarchie regionali, cosicché ogni città dovrà rigenerare il suo ruolo economico nel suo spazio geografico. «Nell’attuale fase dell’economia mondiale è la combinazione di dispersione globale delle attività economiche e di integrazione globale – in condizioni di crescente concentrazione della proprietà e del controllo – che ha contribuito al ruolo centrale di certe grandi città (città globali). Altre città svolgono funzioni equivalenti (punti di comando nell’organizzazione economica; piazze di mercato essenziali, finanza e servizi specializzati alle imprese; sede di innovazione) su scala geografica minore, sia nelle regioni transnazionali sia in quelle subnazionali. Accanto a queste nuove gerarchie globali e regionali di città si colloca un vasto territorio, divenuto sempre più periferico e sempre più escluso dai grandi processi che alimentano la crescita della nuova economia globale; nuova geografia della centralità e della marginalità – le cui demarcazioni sono trasversali alla vecchia linea di divisione fra paesi poveri e ricchi – sempre più evidente tanto nel mondo meno sviluppato quanto in quello più avanzato»3.
Così l’era della globalizzazione non dobbiamo immaginarcela senza città, ma con altre forme di città, tanto più perché, intrecciato alla globalizzazione così da esserne contemporaneamente causa ed effetto, sta l’enorme sviluppo delle tecnologie informatiche e telematiche che ci proietta nei nuovi universi della realtà virtuale. E questa sembra forse la condizione più direttamente incidente sui destini della città. Molte attività che hanno costituito la ricchezza della condizione urbana, ora (tendenzialmente) non si svolgono più nella città reale, bensì nella città virtuale.
Virtualizzazione
Molte forme di lavoro, molte forme di tempo libero, molte forme di commercio, avvengono per via telematica, nella città virtuale e globale, che, come il suo modello reale, possiede le sue vie, le sue agorà, le sue complessità e labirinti, le sue luci e le sue ombre, i suoi vizi e le sue virtù. La città reale può così risultare obsoleta non solo economicamente, ma anche socialmente e culturalmente. La vita individuale finisce per prevalere su quella sociale e la realtà fisica si impoverisce a tal punto da essere completamente sostituita dalla realtà immateriale del virtuale4. L’organizzazione sociale nello spazio sembra diventare irrilevante nei confronti di tutti i fenomeni comunicativi e culturali; si può così, anche per questa via, teorizzare la fine della funzione storica della città.
Anche sotto questo punto di vista, i fatti dimostrano altre conseguenze determinate dalla telematica e dall’enorme sviluppo delle telecomunicazioni; dimostrano in particolare, il moltiplicarsi delle esigenze di nuovi contatti personali (oltre quelli di lavoro), l’insorgere di nuove curiosità di massa che muovono flussi (turistici) sempre crescenti, il moltiplicarsi di eventi ai quali si vuole partecipare proprio perché eventi mediatici che si pongono al centro dell’universo comunicativo, ed altro ancora. Anche la città dell’era della informatica e della telematica si porta appresso condizionamenti e vincoli spaziali, nuove organizzazioni e infrastrutturazioni: si può ancora concludere, come in precedenza, che non si deve prefigurare il futuro comunicativo e culturale senza città, ma che ogni città dovrà ridefinire il suo ruolo culturale nell’universo comunicativo...
La vita relazionale si è andata articolando su tre livelli: quello tangibile, in cui domina la compresenza fisica delle persone e in cui il bisogno di convivialità, che può essere soddisfatto soltanto con l’implicazione di tutti i nostri sensi, prevale sul bisogno di introspezione; quello virtuale, in cui i rapporti, depurati dalla fisicità, avvengono tramite interscambio a distanza di sole informazioni, dati, immagini, e suoni, rinunziando al tatto e all’olfatto; quello finanziario, in cui i rapporti sono ancora più rarefatti e avvengono tramite il semplice interscambio di informazioni e dati relativi al mercato monetario. La città tangibile tende ad ammassare; la città virtuale e quella finanziaria tendono a distanziare; [...] ma più si estendono le nuove relazioni astratte, a distanza, prive di tangibilità, più gli esseri umani desiderano compensare questa rarefazione con una maggiore vicinanza fisica... Ciò spiegherebbe perché, a livello macro, le città milionarie sono cresciute di numero proprio dopo l’avvento dell’informatica; e spiegherebbe perché, a livello micro, il telelavoro stenta ad affermarsi...5
Alle città di oggi sono dunque richieste diverse vite parallele: la vita nella dimensione globale e in quella locale; la vita nella dimensione della sua realtà storica, spazio-temporale e quella nella dimensione della realtà virtuale; l’una non esclude l’altra; la loro compresenza è il portato della contemporaneità. Riflettere sulle conseguenze di queste compresenze è necessario per comprenderne la problematicità. Le relazioni globali-locali sono state esaminate prevalentemente sotto il profilo economico (relazioni tra mercati) ma non mancano le letture filosofiche, antropologiche e politiche che evidenziano il perturbamento introdotto nei processi culturali di identità individuale e collettiva, derivante dalla perdita del riferimento al luogo6.
Pierre Lévy7 conclude il suo manuale di sopravvivenza attraverso il virtuale con un auspicio: “l’avvento di un’arte della virtualizzazione, di una nuova sensibilità estetica che, in quest’epoca di profonda deterritorializzazione, faccia della più ampia ospitalità la sua virtù principale”8.
La virtualizzazione è sempre esistita, implicita nell’atteggiamento progettuale dell’uomo capace di creare strumenti materiali e immateriali per rendere la vita umana. “La novità è che, mentre in passato il movimento principale era l’attualizzazione (il virtuale che a poco a poco – o tutto d’un tratto – si fa attuale...) oggi il movimento principale è diventato la virtualizzazione (il reale che si fa virtuale, ovvero più complesso, non univoco; il reale come campo di possibilità). Quando si dice che questa è l’era dell’immateriale, non si deve intendere banalmente che la materia abbia perso importanza nella vita dell’uomo, ma che essa è molto più manipolabile, influenzabile, gestibile dall’immateriale (in forma virtuale)”9. Così, per Lévy, “la virtualizzazione è uno dei vettori più importanti della creazione di realtà”, un movimento attraverso il quale continuamente la specie umana si ricrea: la crisi e la sofferenza odierna deriva dal subirla senza comprenderla.
Esseri umani, gente di qui e di ogni luogo, voi che siete trasportati nel grande movimento della deterritorializzazione, voi che siete innestati sull’ipercorpo dell’umanità alle cui gigantesche pulsazioni il vostro polso fa eco, voi che pensate riuniti e dislocati nelle maglie dell’ipercorteccia delle nazioni, voi che vivete assorbiti, dilaniati, in questo immenso accadimento del mondo che torna incessantemente a sé e nuovamente si crea, voi che, bruscamente, venite proiettati nel virtuale, voi che partecipate all’enorme salto che la nostra specie sta compiendo verso la sorgente del flusso dell’essere, sì, al cuore stesso di questo straordinario turbinìo, voi siete a casa.
Benvenuti nella nuova dimora del genere umano.
Benvenuti sulle strade del virtuale!
La lettura delle condizioni del progetto urbano, ripresa nel primo decennio del XXI secolo, dopo che la globalizzazione e la virtualizzazione avevano dispiegato i loro effetti, lasciava intravedere ancora molte difficoltà10.
La sequenza di Bigness, Generic City, Junkspace11, anche se la prendiamo alla lontana come metafora sofisticata delle condizioni abitative che va costruendo la contemporaneità, rimanda un quadro che segnala inequivocabilmente la perdita di centralità del concetto di luogo; perdita trascritta in tutta evidenza non solo nelle riflessioni critiche ma anche nelle esperienze progettuali e nelle realizzazioni architettoniche e urbane che vengono proposte come “architettura contemporanea”.
[…] La tentazione di vivere questi processi come una perdita e un rischio generalizzato per la cultura e per l’identità è certo molto forte; ma pure è altrettanto forte la necessità di comprendere le nuove problematiche, prendendo atto, anzitutto, della complessità con la quale si presenta il mondo attuale all’interno della quale è bene collocare anche le vicende del progetto architettonico contemporaneo. […] In realtà, la globalizzazione ci restituisce e ci restituirà ciò che sappiamo metterci dentro; l’analisi critica è indispensabile per comprenderla, la risposta alle sfide che vengono poste dalle nuove condizioni è altrettanto necessaria per governarla.
Sull’incidenza negativa della globalizzazione sul progetto di architettura, su quelle che sembrano essere le sue pratiche prevalenti in questi ultimi decenni, esiste ormai una vasta letteratura. Naturalmente l’argomento più forte della critica è proprio relativo alla perdita di contatto con la realtà sociale e alla distruzione di ogni possibile identità (e alla correlata distruzione di ogni permanenza storica)12.
Sembra viceversa non ancora adeguatamente sviluppata la riflessione volta a far leva sull’incidenza positiva della globalizzazione, sui significati che trasmette, sul messaggio sulla cultura globale che l’allargamento delle reti e delle tecnologie consente. […] Sembra non adeguatamente affrontata la sfida che la globalizzazione pone ai modi consolidati di pensare e – nello specifico – sembra ancora insufficiente la rielaborazione concettuale di un progetto architettonico capace di “inglobare” e di portare a sintesi le tensioni in essa presenti.
Alla base di questo cambiamento di pensiero si possono allora porre le opposizioni dialettiche che oggi attraversano molti concetti (forse i fondamentali) che abbiamo messo in campo nel progetto architettonico. E dunque, in una schematica esemplificazione:
- alla stratificazione che abbiamo interpretato come evidenza spazio-temporale del divenuto storico, fondante il luogo dell’architettura, contrapponiamo (dialetticamente) la compresenza dei flussi eterogenei ed eterodiretti che interconnettono in modi molteplici l’estensione spaziale contemporanea;
- al valore dell’identità come matrice condivisa dei soggetti che progettano il loro agire nella storia, interfacciamo il valore della contaminazione culturale e dei processi (autopoietici) che generano nuove plurali soggettività e, perché no, nuove democrazie;
- al principio dell’insediamento, dell’abitare prendendo posizione univoca nel tempo e nello spazio, affianchiamo i nuovi nomadismi dei grandi flussi migratori dei senza lavoro, dei “cervelli”, dei turismi di massa ecc.
Il tentativo della cultura progettuale di interpretare i nuovi fenomeni data ormai da molti anni e ha preso diverse strade; non si può dire, tuttavia, che le esperienze più eclatanti praticate da coloro che si considerano “alle frontiere del contemporaneo” abbiano il senso dell’utopia e facciano intravedere nuovi orizzonti. Anzi, con i linguaggi forti della tecnologia e con l’arbitrarietà del segno architettonico, del meraviglioso e del distante, forse esemplificano al più alto livello il lato oscuro e l’assenza di prospettive della globalizzazione contemporanea e della sua interpretazione architettonica.
Enrico A. Corti
Ingegnere – già docente di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà Ingegneria e Architettura – Università di Cagliari
1. I testi che seguono sono tratti dal 3° Quaderno del Laboratorio del IV anno, CUEC, Cagliari 2003.
2. S. Sassen, Cities in a World Economy, Pine Forge Press, Thousand Oaks, Calif. 1994, tr. it. Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna 1997.
3. Ivi, p. 33.
4. «[...] Il Lavoro si fa in casa, gli acquisti si fanno in casa, ci si diverte in casa, si studia da casa, si viaggia stando in casa... Quand’anche si uscisse, chi diavolo possiamo incontrare, visto che stanno tutti in casa?». Cfr. L. Monti, Virtuale è meglio, Muzzio, Padova 1993.
5. D. De Masi, Presto diventeremo cittadini di una sola, sconfinata, area urbana, in «Telèma», n. 15, 1998/99.
6. Il termine Glocal (contrazione di Globale e locale) viene fatto risalire a Manfred Lange – all’epoca direttore del German Global Change Secretariat – che lo coniò alla fine degli anni Ottanta. Il concetto di glocalismo, che rimanda a una compresenza della globalizzazione del mercato e di una maggiore specificità e differenziazione degli stili di vita, venne sviluppato negli anni Novanta da Kenichi Ohmae ed Erik Swyngedouw; la diffusione del termine Glocalization si deve, tra gli altri, a Roland Robertson, secondo cui alla fine del XX secolo con la globalizzazione si assiste a – e si partecipa di – «un imponente duplice processo che coinvolge la compenetrazione dell’universalizzazione del particolarismo e della "particolarizzazione" dell’universalismo». Cfr. R. Robertson, Globalization: Social Theory and Global Culture, SAGE Publications, London 1992, p. 100.
7. Pierre Lévy, filosofo, è professore associato presso l'Università di Montreal. In precedenza ha insegnato al Département Hypermédia dell'Università Paris 8 Vincennes-Saint-Denis e al Dipartimento di Scienza dell'Educazione presso l'Università Paris Nanterre. Il suo campo di ricerca riguarda la comprensione delle implicazioni culturali e cognitive delle tecnologie digitali e il fenomeno dell'intelligenza collettiva umana. Il suo blog personale, su cui pubblica riflessioni e papers in francese e inglese, si trova qui.
8. P. Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
9. Così Caronia richiama il pensiero di Lévy. Cfr. A. Caronia, Archeologie del virtuale, Ombre Corte, Verona 2001.
10. Per il testo che segue si veda E. A. Corti, Il progetto architettonico e la città storica (...ai tempi della globalizzazione), in C. Giannattasio - P. Scarpellini (cur.), Proposte per Stampace. Idee per un piano di conservazione del quartiere storico cagliaritano, Gangemi, Roma 2009.
11. R. Koolhaas, Bigness or the Problem of Large, in O.M.A. - R. Koolhaas - B. Mau, S,M,L,XL, Monacelli Press, New York 1995, pp. 495-516. Id., The Generic City, ivi, pp. 1239-1257. Id., Junkspace, in «Project on the City 2/Harvard Design School», Guide to Shopping (Taschen, Köln 2001, pp. 408-421).
12. Una buona discussione si trova nel saggio Intermezzo architettonico: globalismo e internazionalismo critico, in V. Gregotti, L'ultimo hutong. Lavorare in architettura nella nuova Cina, Skira editore, Milano 2009.