Frammenti
Per un dialogo sulla città
(pre-durante-post coronavirus)
Le condizioni che si sono verificate a seguito del rigoroso lockdown applicato in Italia hanno portato in primo piano l’interesse per la città. SPARCH/IT STUDIO ha promosso la call for pictures – La città latente per stimolare, a partire dalle immagini, un dibattito sullo spazio pubblico. Parallelamente, tramite la messa a disposizione di questo blog, ha previsto di allargare l’ambito dei contributi e dei punti di vista sulla città.
Aderisco a questa iniziativa con l’ottimismo della volontà sapendo quanto è complicato parlare di questi temi, soprattutto per chi ne ha fatto pratiche disciplinari tendenzialmente basate su propri linguaggi e tecnicalità; ho comunque pensato, almeno nella prima fase, di sgranare alcuni pensieri, così come li ritrovo disseminati nel mio personale archivio, evitando le pulsioni del momento.
Enrico A. Corti
Ingegnere – già docente di Composizione Architettonica e Urbana
Facoltà Ingegneria e Architettura – Università di Cagliari
Luogo/non-luogo
Frammento #1
Il fatto è che la città è stata fin qui, per definizione, il luogo della concentrazione e dell’intensità dello scambio. È da sempre molto di più della somma fisica degli edifici che la costruiscono. E la città della distanza sociale, forse, è soltanto un ossimoro. Lo spazio di questa città-noncittà ci interroga.
— La città latente
L’interrogativo affastella molti pensieri che prendono strade diverse e contraddittorie.
Una prima precisazione: quella che ci restituiscono gli occhi virtuali e potentissimi di telecamere volanti, è la città della distanza sociale? (Può essere definita così?)
In realtà, così sono presentati i provvedimenti governativi che, in questo periodo, per annullare i rischi di contagio, invitano i cittadini a tenere le distanze, e più esplicitamente a “stare a casa”; e così correntemente si parla appunto di provvedimenti che impongono “la distanza sociale.”
La precisazione che vorrei introdurre riguarda il fatto che i provvedimenti prevedono sostanzialmente due cose: la prima riguarda il mantenimento di una “distanza corporea”, (distanza tra la fisicità dei corpi, tra la loro animalità respiratoria e tattile — ben rappresentata, ad esempio, dalle persone in fila agli ingressi dei supermercati); distanza che certo sopprime ogni forma comunicativa prossemica, basata sulle numerose relazioni chiamate, appunto, di prossimità. Ma nelle condizioni attuali, questa distanza fisica (questa assenza di prossimità) non può essere identificata in assoluto come “distanza sociale” perché ormai, da decenni, il livello comunicativo prossemico non svolge più la parte principale e fondamentale del contatto sociale: le relazioni interpersonali hanno preso molte altre strade, utilizzano altri mezzi che prescindono dal contatto fisico e dalla vicinanza corporea nello spazio.
Per questa ragione credo si possa sostenere che la relativa calma e accettazione, (almeno apparenti) con le quali si applicano le severe limitazioni è una prova diretta che l’interruzione delle relazioni sociali è del tutto parziale, come per altro è confermato dal concomitante affaticamento della “rete”. Probabilmente in questi stessi giorni, altre esplorazioni dei contesti urbani con strumenti in grado di rilevare l’entità di onde o di campi o di qualche altra diavoleria elettronica, rivelerebbero l’intensificarsi dei flussi e potrebbero far parlare di un periodo di intense relazioni sociali.
La seconda cosa che viene imposta (stare in casa) è quella che, in effetti, determina la desertificazione della città fisica (approssimativamente, della città pubblica, dove va in scena qualcosa di collettivo) e, reciprocamente, determina la concentrazione degli abitanti nella dimensione degli spazi privati e questo universo è, per definizione, oscuro, invalicabile, “chiuso” e tuttavia è una componente essenziale della città. In ogni caso, le città ai tempi del coronavirus non sono città spopolate ma sono città vissute in modo diverso; un modo peraltro che è già stato teorizzato e che, almeno in parte, presuppone il superamento concettuale della distinzione tra spazio pubblico e privato, dal momento che lo spazio privato può essere condiviso e contenere funzioni e attività solitamente attribuite alla sfera pubblica. A casa si fa scuola, si lavora collegialmente, si fanno acquisti, si viaggia e si visitano musei, si chiacchiera del più e del meno (ma anche, in questi tempi, si aspetta di essere curati o tele-curati e si passano le quarantene etc.).
In definitiva le città fotografate in questo periodo non sono città spopolate, città della distanza sociale e non sono città senza forme di vita pubblica: forse sono semplicemente l’esasperazione di come le città stanno diventando. Naturalmente questo non esclude la gravità della situazione e la pesantezza delle costrizioni; col passare dei giorni sicuramente l’orizzonte non si manterrà sereno e altre necessità si imporranno: di lavoro, di cultura, d’amore, di vita (cioè di complete relazioni urbane, non solo interpersonali ma proprio con il concentrato di stimoli che albergano nel metaspazio1 urbano) e di nuovo si riaccenderà la città.
Sarà la stessa, si guarderà allo stesso modo? Si vivrà allo stesso modo?
Da molti decenni si sono ipotizzati cambiamenti profondi per le città e molti cambiamenti sono di fatto intervenuti ma come slittamenti sottili, continui e impercettibili. Ora sembra invece essersi verificato un evento planetario che, forse, segna “un prima e un dopo”.
Per capirci qualcosa a me pare opportuno partire dal “prima” (di un mio personale archivio), da pensieri dimenticati, (la priorità della città — auspicata a conclusione della presentazione del Piano di Cagliari...); da letture affrettate per teorizzazioni didattiche — enunciate ma non vissute (Globale-Virtuale); dal filo di continuità-identità che lega la costante rielaborazione del concetto di città e del suo spazio...
Mi aspetto così, ottimisticamente, di avere qualche idea del “dopo”.
La lettura di quanto segue è facoltativa — sconsigliata ai minori (di 50 anni).
La priorità della città 2
In quel mondo ormai lontano, che chiamiamo storico, quasi ogni trasformazione dell’ambiente aveva una sua ragione all’interno della società; così almeno hanno pensato i teorici. Città vivente e città di pietra... Nel mondo storico le città sono diverse come sono diversi gli uomini e questa diversità dà il senso dell’identità agli abitanti e dà la specificità al luogo. Ma allora si viveva ancorati alla terra... I mondi contemporanei sono invece molteplici e sovrapposti e sono legati allo spazio e al tempo in modi che ancora non abbiamo capito bene. Si è pensato che [questi mondi] non avessero alcun legame [con lo spazio e con il tempo] e così è stata coniata la definizione di non-luogo; definizione in negativo proprio per marcare l’assenza di legami. Inizialmente si sono elencati questi non-luoghi (le grandi infrastrutture e gli spazi per le attività di comunicazione, del consumo, del tempo libero; le installazioni necessarie alla circolazione di beni e persone, gli stessi mezzi di trasporto – treni, metropolitane, aeroporti, autostrade, autogrill, stazioni ferroviarie – le grandi catene di alberghi, i moderni musei, Disneyland...). Poi si è visto che l’elenco poteva ampliarsi a dismisura perché non c’è altro modo [che prescindere dal contesto spaziotemporale locale3] per risolvere le organizzazioni complesse della contemporaneità e che molta della nostra vita si sviluppa in quella sospensione di spazio e di tempo. [...] Così si è arrivati a pensare che il non-luogo non sia altro che l’anticipazione o l’essenza della contemporaneità. Molti grandi progetti di trasformazione urbana sono, infatti, (consapevolmente o meno) progetti di non-luoghi.
[...] Per questo bisogna ritornare alla priorità della città; ma non si riuscirà più a pensare alla città se non si trovano nuove tensioni tra luoghi e non-luoghi, se non si scopre la profonda ricchezza della loro commistione. Più la complessità ci allontana dalla semplicità del rapporto diretto con il mondo, più è necessario che le ragioni del progetto affondino le loro radici nella architettura del luogo. In queste condizioni quello che importa è proprio l’architettura della città che ovviamente deve anch’essa mutare natura e funzione: deve preoccuparsi di meno di rappresentarsi e di trasformare e interessarsi di più all’interpretazione dei luoghi; l’architettura della città deve tentare di aderire a ciò che preesiste, aggiungendo significati plurimi, inventando contenuti urbani, aprendosi a forme molteplici e spontanee d’uso. In questo senso la città è più leggera perché dovrebbe diventare quasi ovvia nelle sue manifestazioni, ma questo è possibile solo se la soluzione tecnica dei problemi è esatta. E allora bisogna semplificare; togliere materia, aggiungere idee, che è come dire aggiungere architettura della città...
1. Dalla definizione di Rosario Assunto (anni ’60) di spazio urbano come più che spazio – metaspazio – perché contiene il tempo si è passati a quella di iperspazio perché contiene il cyberspazio...
2. Dalla relazione di presentazione del Piano Urbanistico Comunale di Cagliari, Il percorso del Piano, maggio 2002.
3. Sono gli anni in cui si teorizza “la città generica”. Cfr. R. Koolhaas, Bigness, in O.M.A. - R. Koolhaas - B. Mau, S,M,L,XL, Monacelli Press, New York 1995.